Il cervello è in grado di rappresentare la fobia. Molte ricerche sull’encefalo hanno permesso di accedere alle reti neurali coinvolte in queste paure irrazionali. Sono state identificate ben 500 varianti di fobia.
Si può manipolarle per guarire da tali disordini psicologici?
La cura della fobia è di prassi affidata alla terapia dell’avversione, che comporta l’esposizione in ambiente protetto dell’oggetto di cui si ha paura al soggetto fobico. L’idea è quella di mostrare al soggetto che la sua paura è ingiustificata. Ma non sempre questa terapia funziona, anzi molti pazienti la trovano estremamente stressante. Il team di neuroscienziati della UCLA, guidato da Hakwan Lau in collaborazione con la Columbia University e il Nara Institute of Science and Technology, ha sviluppato una cura inconscia, in grado di bypassare la fase dell’esposizione andando ad agire direttamente sul cervello.
La chiave della terapia è stata identificata grazie alla fMRI, la tecnica di imaging della risonanza magnetica funzionale, che consente di monitorare l’attività neurale del cervello del paziente, visualizzando quali aree rispondono a determinati stimoli. Mostrando ai soggetti le immagini di oggetti o situazioni che causano la fobia, si è visto che ciascuna paura ha un suo pattern neurale specifico: come se il nostro cervello categorizzasse le varie fobie con uno specifico codice identificativo. Il processo che sta alla base della terapia ha preso il nome di “decoded neurofeedback” ed è stato messo a punto attraverso due studi.
In un primo momento, ai partecipanti venivano mostrate delle linee verticali colorate. Quando le linee erano di colore blu o giallo, lo stimolo era unicamente visivo. Invece per le linee verdi e rosse, lo stimolo visivo veniva accompagnato da una lieve scossa elettrica, la cui funzione era quella di far sì che il cervello del soggetto catalogasse lo stimolo come “spaventoso, pericoloso”. Queste attività venivano registrate e analizzate tramite un algoritmo basato sull’intelligenza artificiale, in modo da estrarne un modello, un pattern. Quindi si procedeva ad hackerare l’attività provocata dallo stimolo delle linee rosse, comunicando al soggetto un messaggio del tipo “Complimenti, hai vinto 10 centesimi” ogni volta che il suo cervello mostrava di pensarci inconsciamente (ovvero in assenza di stimoli). Al soggetto non veniva detto cosa doveva fare per vincere il denaro ma gli veniva comunicata la vincita a seconda del pattern mostrato dalla fMRI del suo cervello. Così si è visto che il pensiero delle linee rosse, a cui si era associata la ricompensa, risultava meno spaventoso di quello verde, a cui non era stato associato nulla.
La procedura è stata quindi ripetuta con successo mostrando ai soggetti le immagini che rappresentavano la loro fobia. Basta un’unica esposizione all’oggetto temuto affinché l’algoritmo possa estrarre il pattern identificativo, per procedere a riprogrammare il cervello monitorando esclusivamente l’attività inconscia. Il risultato è che i livelli di paura, misurati con i parametri di sudorazione ed attività dell’amigdala, si riducevano drasticamente. Ulteriori ricerche stanno cercando si verificare se questi modelli neurali delle fobie siano puramente soggettivi o se possano essere condivisi tra individui diversi. Qualora venisse verificata la seconda ipotesi, non ci sarebbe alcun bisogno di esporre il paziente all’immagine dell’oggetto, in quanto si potrebbero scrivere dei “software” universali in grado di riprogrammare il cervello di qualunque soggetto affetto da quella particolare fobia.
Prima che la procedura del decoded neurofeedback possa arrivare ai trial clinici ci sono ancora molti aspetti da verificare. Bisogna valutare se la riprogrammazione ha un effetto duraturo nel tempo, o se invece i sintomi possono ricomparire in seguito – come accade per la PTSD (sindrome post-traumatica da stress).
Fonte: Nature