L’Alzheimer è nell’immaginario collettivo la malattia che fa perdere la memoria. Ed è proprio questo ciò che accade. L’incapacità di ricordare informazioni recenti e la difficoltà nell’articolare le parole sono il segnale inziale con cui la malattia si manifesta. Con il passare del tempo la perdita di memoria diventa sempre più marcata, al punto di non essere più in grado di riconoscere i propri familiari.
Il progredire della malattia comporta un peggioramento delle funzioni cognitive, che si estende ad altre aree cerebrali, come quelle coinvolte nel ragionamento, nell’orientamento, nelle funzioni esecutive o nel prendere decisioni ed è associato alla comparsa di disturbi comportamentali e psichici, quali agitazione, depressione e psicosi che portano inevitabilmente il soggetto ad una significativa riduzione della capacità di svolgere le normali attività della vita quotidiana.
Diversi successi cinematografici, come ad esempio Still Alice, hanno messo in scena splendidamente il cambiamento drastico delle condizioni mentali e fisiche di chi soffre di malattia di Alzheimer e le conseguenze emotive che ciò ha sulla sfera familiare. Altri titoli degni di nota sono il film Iris o Away from her.
Nonostante siano trascorsi più di cento anni da quando il medico tedesco Alois Alzheimer descrisse i cambiamenti riscontrati nel cervello di una donna che morì per una sconosciuta malattia mentale, che oggi porta il suo nome, la diagnosi di Malattia di Alzheimer si basa ancora principalmente sulla descrizione dei sintomi. Secondo i criteri stabiliti dal Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM-IV-America Psychiatric Association, 1994), per diagnosticare la malattia è necessario registrare la perdita di almeno due o più dei seguenti aspetti: memoria, linguaggio, calcolo, orientamento e giudizio. Esistono diversi test psicologici, alcuni anche molto semplici, attualmente utilizzati dai medici, il cui scopo è quello di fornire una visione globale e indicazioni preliminari sulle capacità cognitive e sulle aree potenzialmente deficitarie, da valutare poi in maniera più appropriata.
Da un punto di vista clinico la caratteristica macroscopica più evidente della malattia di Alzheimer è la marcata riduzione del tessuto cerebrale, riscontrabile mediante risonanza magnetica nucleare e la presenza di depositi di due proteine non più funzionanti, chiamate β-amiloide e proteina Tau, che aggregandosi formano quelli che vengono definiti rispettivamente placche senili e grovigli neuro-fibrillari.
Esistono due forme distinte di malattia di Alzheimer: le forme ereditarie, note con l’acronimo di FAD (Familial form of Alzheimer’s disease) e le forme sporadiche definite in inglese come SAD (Sporadic form of Alzheimer’s disease)
Le forme familiari sono molto rare. Esse sono caratterizzate da un esordio precoce (anche intorno ai 30 anni) e da un meccanismo di trasmissione genetica che coinvolge almeno tre individui appartenenti a due o più generazioni (nonni, genitori, figli). I principali geni che possono essere implicati in questa forma della malattia di Alzheimer sono quelli per la proteina precursore di amiloide (APP), per la Presenilina 1 (PSEN1) e per la Presenilina 2 (PSEN2).
Le forme sporadiche rappresentano, invece, il 99% dei casi di malattia di Alzheimer. In tali forme si assiste a un esordio tardivo, mediamente dopo i 65 anni di età e le cause che ne innescano l’inizio non sono ancora state scoperte. L’unico fattore di rischio ad oggi noto è la presenza di una mutazione del gene per una proteina chiamata ApoE. Questa proteina gioca un importante ruolo fisiologico nella distribuzione e nel metabolismo del colesterolo e dei trigliceridi in molti organi e tessuti e una sua mutazione rappresenta un elevato rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer.
Alla luce di queste scoperte e dello sviluppo di nuove tecnologie sorge spontanea una domanda: è possibile utilizzare test genetici per predire il rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer? La risposta è sì: test clinici per pazienti asintomatici “a rischio Alzheimer” sono oggi clinicamente disponibili, ma è necessario enfatizzare il ruolo esclusivamente predittivo e non diagnostico di tali test e considerare l’impatto che questi possono avere sulla sfera emotiva, sulle relazioni personali e sugli sviluppi professionali di ciascun individuo, comportando anche depressione e rifiuto.
Indipendentemente dalla forma, familiare o sporadica, la degenerazione causata dalla malattia di Alzheimer è irreversibile e segue le medesime tappe, con un’attesa di vita che copre un arco temporale in media di 7-8 anni.
Nella ricerca di fattori di rischio per la Malattia di Alzheimer il vivere in un paese industrializzato, un basso livello d’istruzione, una scarsa attività fisica, l’ipertensione, la colesterolemia, il diabete mellito di tipo 2, ma soprattutto l’invecchiamento, sono stati proposti come fattori che possono compromettere le funzioni cognitive e favorire lo sviluppo di Alzheimer.
Se poche sono le certezze in ambito preventivo, ancora minori sono le strategie di cura. Allo stato attuale, infatti, si dispone solo di farmaci “sintomatici”, quali Donepezil, Rivastigmina, Galantamina, Memantina, finalizzati soltanto all’attenuazione delle manifestazioni cliniche della malattia, ma non esiste ancora un farmaco che sia in grado di curare l’Alzheimer. Vista la complessità della malattia, non bisogna tralasciare che nei 2/3 dei pazienti Alzheimer vengono utilizzati anche farmaci per i disturbi comportamentali, quali antidepressivi, antipsicotici, per il trattamento di sintomi come delusione, allucinazioni, agitazione e aggressività e benzodiazepine, per il trattamento dell’ansia e dell’agitazione.
La Malattia di Alzheimer è responsabile di oltre il 50% dei casi di demenza e attualmente conta circa 24 milioni di persone in tutto il mondo, numero destinato drammaticamente ad aumentare nei prossimi anni, anche a causa dell’innalzamento della vita media della popolazione.
Fonte: The FASEB Journal