Il Megalodonte è una delle creature marine più imponenti mai esistite. Vissuto da 15.9 a 2.6 milioni di anni fa, questo squalo gigantesco, era l’incubo dei mari, ma come è giunto alla sua estinzione? Ripercorriamo la sua storia, fra ricerche scientifiche e bufale.
IN BREVE
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LO SQUALO PIÙ IMPONENTE CHE SIA MAI ESISTITO
Squalo preistorico, gigantesco, l’assoluto sovrano degli Oceani nel Miocene e Pliocene, il Megalodonte era temuto da tutta la fauna marina, anche dai più spietati predatori. Ad intimidire erano le sue mastodontiche dimensioni, la sua aggressività e ancora la necessità di non poter giungere ad alcun compromesso pur di placare il suo appetito. Un superpredatore, il Megalodonte, con delle caratteristiche fisiche uniche nel regno abissale che lo rendevano assolutamente inattaccabile, anche da animali più grandi di esso.
I numeri del superpredatore preistorico
Comparso circa 20 milioni di anni fa e vissuto fino ad approssimativamente 3.6 milioni di anni fa, il Megalodonte (Otodus megalodon, Carcharodon megalodon o anche Carcharocles megalodon) dominava i mari e gli oceani incontrastato. Il sovrano degli squali giganti era la creatura preistorica in assoluto più temuta dalle sue prede predilette, i grandi mammiferi marini, ma non solo. Il gigantesco squalo preistorico non è stato solamente il più grande squalo vivente, ma anche uno dei più grandi animali marini mai esistiti. Le sue dimensioni raggiungevano i 16 metri (anche se alcuni esemplari potevano raggiungere dimensioni maggiori, ma mai oltre i 18 metri, anche se i biologi marini Patrick J. Schembri e Stephen Papson avevano ipotizzato una lunghezza di 24-25 metri al massimo), quasi tre volte le dimensioni del grande squalo bianco, ed è probabilmente l’animale più forte che sia mai esistito. Il suo peso raggiungeva le 50–60 tonnellate, e necessitava di almeno 8 tonnellate di carne al giorno per nutrirsi (circa un quinto del suo peso). Questi numeri sono esclusivamente basati sulle dimensioni dei denti del predatore, che possono anche raggiungere la lunghezza di 18 centimetri; i denti possono rivelare molto di un animale, come ad esempio ci dà indicazione del tipo di preda da cui dipende il suo sostentamento.
Di cosa si cibava il Megalodonte?
Sebbene gli squali siano generalmente considerati predatori opportunisti, le impressionanti dimensioni dello squalo preistorico, l’enorme velocità nel nuoto e le possenti mandibole rendevano Megalodon un superpredatore capace di intimidire un’ampia varietà di prede. Studi condotti su isotopi del calcio ritrovati in resti di squali elasmobranchi hanno rivelato che C. megalodon occupava un livello trofico superiore dell’attuale grande squalo bianco, in quanto si ergeva in un “gradino” più alto della catena alimentare. Ma è da evidenze fossili che è possibile identificare, con relativo grado di precisione, che le prede preferite del Megalodonte erano prevalentemente cetacei, come delfini, piccole balene, dugonghi, sirenidi, squalodontiti, capodogli, balene della Groenlandia, non disdegnando pasti a base di foche, grossi pinguini e pinnipedi e tartarughe marine. Molti resti ossei di balena, infatti, sono stati ritrovati con delle incisioni profonde nel tessuto, probabilmente generate dall’enorme forza sprigionata dal morso dello squalo gigante.
Non potendo contare sulla solo sulla furtività per attaccare le prede (sarebbe difficile non notare un predatore di tali dimensioni!) gli squali adottano spesso strategie di caccia complesse ed originali. Il Megalodonte e lo squalo bianco condividono diverse fasi di tali strategie, sebbene gli attacchi del primo differiscano per certi aspetti. Infatti, mentre lo squalo bianco mira solitamente alla regione addominale inferiore della preda, il Megalodonte probabilmente si concentrava al cuore e ai polmoni, sfruttando la possente struttura ossea dei suoi denti, capaci di penetrare perfino la gabbia toracica di una balena di grandi dimensioni. Un’altra strategia consisteva nel colpire con violenza le vertebre della preda (nello stesso modo in cui l’ariete veniva tradizionalmente impiegato nel medioevo per sfondare i grandi cancelli medioevali) causando delle fratture di compressione, e quindi l’immediato collasso della colonna vertebrale; una volta incapace di muoversi, e di reagire, alla vittima non rimaneva altro che andare incontro ad un’inevitabile fine. È importante notare che queste formidabili strategie non si sono evolute tutte in una volta, ma co-evolute con le caratteristiche sempre diverse delle prede.
La fisica dello squalo preisotrico
Di forma triangolare, robusti, enormi, finemente serrati, privi di dentelli laterali e con un collo (la congiunzione di radice e corona) a forma di V, difficilmente una volta visto si dimentica il dente di Megalodonte. Essi erano ancorati saldamente a fibre di tessuto connettivo, con la superficie linguale e labiale convessa, e disposti in più file: i denti anteriori perpendicolari alla mandibola e i posteriori piegati e asimmetrici. Normalmente un esemplare di Megalodonte poteva arrivare ad avere anche 250 denti, in ben 5 file, con un aperture boccale di 2 metri circa (con un’apertura angolare di approssimativamente 75° fino a 100°). Ma ciò che rendeva davvero letale il morso dello squalo Megalodonte erano i denti serrati: incastrandosi l’uno tra gli spazi dell’altro aumentavano la probabilità che un singolo morso potesse incidere da parte a parte l’intero spessore di un osso.
Ma non è finita qui. Per misurare fisicamente la forza del morso, il tema di scienziati guidato da S. Wroe, nel 2008, ha quantificato in Newton (l’unità di misura della forza in fisica) la potenza del morso di un esemplare di squalo bianco lungo 2,5 metri, per poi trasporre isometricamente i risultati ad un esemplare di megalodonte delle dimensioni di circa 16 metri, ottenendo un valore 108.514 – 182.201 Newton. Considerando che il morso umano ha una forza che si aggira attorno ai 1.317 Newton, trovarci tra le fauci di un Megalodonte affamato può (ammesso che sia possibile) essere solo l’ultima delle nostre aspettative!
LA STORIA EVOLUTIVA DELLO SQUALO GIGANTESCO
Molte sono le ricerche e le ipotesi che tentano di chiarire la storia evolutiva dello squalo Megalodonte. Tuttavia, sebbene siano stati fatti dei passi avanti in questa direzione, poco si sa sulle relazioni di “parentela” di questa creatura con antenati di squali che attualmente abitano le profondità marine o con altri predatori della preistoria. Grazie a numerosi ritrovamenti, tra cui principalmente record fossili, si spera di elucidare il complesso e tortuoso percorso evolutivo di questa specie.
Il vero identikit di uno squalo cosmopolita
La maggior parte delle ricostruzioni grafiche raffigura Megalodonte con lo stesso aspetto di un grande squalo bianco, semplicemente di dimensioni più grandi. Ebbene, non c’è niente di più sbagliato. O. megalodon aveva probabilmente un “naso” (rostro) più corto, mandibole piatte e schiacciate e delle pinne pettorali molto lunghe necessarie a bilanciare la massa e le dimensioni della creatura durante il nuoto. Per citare Emma Bernard, paleontologa di spicco nel panorama internazionale degli ultimi anni, “Tutte le ricostruzioni finora fatte di Megalodon lo ritraggono molto simile allo squalo bianco perché per tanto tempo gli scienziati avevano creduto che le due specie fossero in qualche modo correlate, ma non è così […], infatti C. megalodon è l’ultimo discendente di una linea evolutiva che si discosta da quella dello squalo bianco. Il discendente definitivo di Megalodon, stando alle ultime ricerche, è uno squalo apparso 55 milioni di anni fa, l’Otodus obliquus, una creatura di 10 metri di lunghezza. Tuttavia, si pensa che la storia evolutiva del grande squalo preistorico risalga a Cretalamna appendiculata, risalente a 105 milioni di anni or sono. Recenti evidenze fossili stanno portando avanti l’ipotesi che l’antenato dello squalo bianco possa essere vissuto nello stesso periodo del Megalodonte, creando competizione con quest’ultimo. Inoltre, un numero sempre più crescente di ricercatori sta mettendo in discussione il legame del Megalodonte con il grande squalo bianco, attribuendo al fenomeno di evoluzione convergente la ragione della dentatura tanto simile tra le due specie.
Il Megalodonte è stato dapprima considerato appartenente alla famiglia Lamnidae (gen. Carcharodon), sebbene oggi lo si riconosca membro della famiglia Otodontidae (gen. Carcharocles). Secondo il modello più recente, il grande squalo bianco sarebbe imparentato con Isurus hastalis (grazie anche alle somiglianze dei loro denti). Si ritiene, inoltre, che Carcharodon carcharias sia più strettamente imparentato perfino con lo squalo mako (genere Isurus) che con il Megalodonte.
Parecchio tempo è trascorso dalla prima classificazione di Megalodon (1881, ad opera di Roberto Massimo Lawley, paleeontologo italiano) come Selache manzonii. Dalla scoperta dei fossili del genere Megalolamna (nel 2016), il genere Otodus è stato considerato parafiletico, ma l’introduzione di Carcharocles in Otodus ha reso il genere monofiletico con la “sister clade” (sorella clade) Megalolamna.
Dalla sua prima comparsa fino all’estinzione, Megalodon è stato capace di adattarsi a climi tropicali e subtropicali, diffondendosi nei mari di tutto il globo, eccetto le regioni Antartiche. Sono stati ritrovati denti di Megalodonte nel Nord America, sulla riva dei fiumi della North e South Carolina e della Florida, sulle coste del Marocco, in Australia e in giacimenti su isole dell’Oceano Pacifico e dell’Oceano Indiano, anche se il superpredatore era probabilmente specializzato nella caccia in acqua poco profonde.
I denti fossili di C. megalodon
La maggior part dei record fossili di Carcharodon megalodon sono denti. Questo perché gli squali producono continuamente denti nel corso della loro vita e, a seconda di cosa si cibano, possono perdere anche un’intera fila di denti ogni settimana o due, fino ad un ricambio totale di 40.000 denti nell’arco di una vita. L’entità di questo “riciclaggio” assicura la deposizione di queste strutture ossee sul fondo oceanico e la loro conservazione. Inoltre, i denti sono la parte più robusta dello scheletro di uno squalo, composto da cartilagine e quindi meno resistente alla degradazione nel tempo. È stato recentemente comunicato il ritrovamento di un fossile di Megalodonte con cranio, denti e una corta fila di vertebre nell’area costiera peruviana. La notizia, che potrebbe suscitare stupore nei non addetti ai lavori, è spesso il solito caso di bufala mediatica (a questo punto è dedicato il paragrafo qui sotto).
Cenni paleontologici e ritrovamenti
Nonostante le notevoli differenze per quanto riguarda le dimensioni, gli scienziati paragonano lo storico Carcharodon megalodon al grande squalo bianco in particolare per la dentatura possente e per il muso smussato. Non è stato difficile per gli esperti tracciare un perfetto identikit del preistorico squalo Megalodonte, mostro degli abissi: il suo scheletro, come quello di un qualsiasi altro esemplare di squalo, era fatto di cartilagine motivo per cui non ne è stato possibile trovarne alcuna traccia. Ciò che sembrerebbe essere rimasto, arenato nelle profondità degli oceani, sarebbero i suoi denti ossei, sopravvissuti nel corso del lungo tempo trascorso e in grado di dire molto sulla possente e arcaica creatura. Proprio dalla dimensione dei suoi denti dipenderebbe il suo nome, megalodon, che in greco significa, appunto, “grande dente”.
A confermare il vero significato del nome, i numerosi ritrovamenti, nel corso degli anni, di enormi denti appartenenti a storici esemplari di Megalodon, alcuni addirittura in territorio italiano. Risalirebbe allo scorso aprile, infatti, il ritrovamento di un dente di Megalodonte all’interno del Tunnel Borbonico, a Napoli, da parte del geologo Gianluca Minin. Quello nel Tunnel Borbonico è solo uno dei tanti ritrovamenti a testimonianza dell’esistenza di questo squalo gigantesco, un’esistenza che, come abbiamo già detto, sarebbe tramontata circa due milioni di anni fa. Molte sarebbero le possibili cause della sua fine. Una delle ipotesi avanzare evidenzierebbe come principale causa la variazione delle condizioni ambientali: nel periodo durante il quale è vissuto il possente squalo preistorico le condizioni ambientali erano più omogenee e le acque degli oceani più calde. Il Megalodonte non sarebbe riuscito ad evolversi in maniera tale da adattare la sua temperatura corporea a quella degli oceani, giungendo dunque alla sua dipartita.
Tuttavia questa ipotesi sarebbe stata largamente smentita dalla paleontologa Catalina Pimiento e dal suo team di colleghi che hanno condotto delle ricerche dettagliate in merito all’estinzione dello squalo Megalodonte. La Pimiento, consultando il Paleobiology Database, ha infatti posto sotto analisi la presenza del’abnorme creatura nel tempo, relativamente al clima: circa 20 milioni di anni fa, Megalodon, viveva nelle acque dell’emisfero settentrionale e continuò a diffondersi in quasi tutti gli oceani fino a quasi 15 milioni di anni fa. Da quel momento in poi la sua presenza nei mari avrebbe raggiunto i minimi storici. La ricerca dimostra, però, che non ci sarebbe alcuna correlazione tra le testimonianze fossili dello squalo Megalodonte e i picchi delle temperature (sia verso l’alto che verso il basso).
ESTINZIONE E CONSEGUENZE DELLA SCOMPARSA
Numerosi studiosi oggi si interrogano sulla misteriosa scomparsa dello squalo gigantesco Megalodonte. Alcuni attribuiscono la causa della sua estinzione ai cambiamenti climatici, altri alla competizione con altre specie, spesso trascurando le dinamiche energetiche cui si va incontro quando un ecosistema viene a mutare, anche drasticamente.
A cosa si deve la scomparsa del Megalodonte?
Sebbene alcuni criptozoologi siano dell’avviso che C. megalodon possa essersi estinto di recente o perfino sopravvissuto, la maggior parte degli esperti non la pensa allo stesso modo. Perché vi è ragione di credere ai secondi e non ai primi? Il pianeta Terra è andato incontro a numerosi cambiamenti durante il periodo in cui Megalodonte, il re degli squali giganti, è esistito, che in maniera non indifferente hanno influenzato la sopravvivenza dell’intero ecosistema marino.
Un evento di glaciazione verificatosi in Oligocene (35 mln di anni fa) e vari eventi geologici hanno contribuito a un generale raffreddamento del pianeta; l’interruzione della Corrente del Golfo ha fatto sì che l’acqua ricca in nutrienti raggiungesse i principali ecosistemi marini, diminuendo le risorse di cibo; in più, la fluttuazione del livello del mare avvenuta nel Plio-Pleistocene (5-12 mln di anni fa, Cenozoico) ha avuto un impatto molto negativo sull’ecosistema costiero e potrebbe aver contribuito all’estinzione del Megalodonte e di altre specie della megafauna marina del periodo. A cosa si deve questa (sebbene ipotetica) conclusione?
Questi cambiamenti oceanografici hanno condotto ad una riduzione dei siti di nidificazione, fondamentali per la riproduzione della specie, in quanto proteggono gli esemplari più giovani dalla predazione. Incapace di generare calore interno, e quindi aumentare il consumo metabolico, il temibile squalo è stato costretto a spostarsi in regioni più temperate, permettendo ai paleontologi di sfruttare le sue evidenze fossili per tracciare delle mappe di migrazione della creatura nel tempo. Proprio grazie queste ricerche è stato possibile affermare che la sua estinzione non è stata univocamente determinata dal cambiamento di temperatura degli oceani; sono stati ritrovati dei resti in regioni oceaniche che nel Miocene e Pliocene presentavano delle temperature medie tra i 12 e i 27° C, fino ad arrivare ad un range complessivo compreso tra 1 e 33° C. Per il suo sistema di termoregolazione, il Megalodonte è stato definito mesotermo, ossia avente caratteristiche intermedie tra gli ectotermi e gli endodermi (come l’uomo).
L’impatto dell’estinzione sull’ecosistema
Basandosi sulla sua dentizione e distribuzione, dagli studiosi è stata avanzata l’ipotesi della possibile, e già citata, imponente estensione e massa del temibile predatore cosmopolita, che per mantenere una simile biomassa vitale necessitava di diverse tonnellate di carne al giorno, prevalentemente da cetacei. Le sue dimensioni gigantesche e l’abbondanza di testimonianze fossili, hanno reso il Megalodonte un esempio più che significativo di megafauna marina ormai estinta.
Tuttavia, stando ai numerosi studi in letteratura sul tema, l’estinzione più o meno improvvisa di superpredatori di simile taglia causa effetti a cascata nelle catene alimentari e impatta in maniera non indifferente sulla composizione e funzione dell’ecosistema. Nello specifico, è stato dimostrato che la scomparsa di grandi squali dagli ampi ecosistemi marini produce la lenta degradazione di quest’ultimi e recentemente è stata registrata una notevole diminuzione del loro numero negli oceani più grandi. Pertanto, lo studio delle dinamiche temporali di estinzione degli squali superpredatori è di innegabile interesse scientifico.
Un passo fondamentale nella comprensione degli effetti causati da un evento di estinzione è la determinazione di un range temporale nel quale la creatura è andata pian piano a scomparire. È però difficile stabilire esattamente il periodo di estinzione di una specie, spesso a causa dell’incompletezza di testimonianze fossili. Quindi, l’assenza di record fossili non è consequenzialmente collegata alla scomparsa di una specie, ma dovuta ad una moltitudine di fattori quali diversi bias di conservazione (cioè la caratteristica di alcuni fossili di conservarsi meglio di altri), popolazioni spazialmente eterogenee o esemplari fossili non ancora rinvenuti.
Non è però il caso di C. megalodon, perché data l’abbondanza di record fossili e la sua distribuzione cosmopolita rappresenta un caso ideale per comprendere le risposte macroevolutive ed ecologiche delle altre specie marine a seguito della sue estinzione. In particolare, nonostante la limitatezza e l’incertezza dei fossili di Megalodonte, la determinazione del periodo di estinzione di C. megalodon ci assicura una solida base per capire la dinamica evolutiva di affermazione all’interno dell’ecosistema dei grandi cetacei che si alimentano per filtrazione. Inoltre tali fossili possono essere impiegati per l’accertamento in termini quantitativi dei tempi di estinzione di altre specie, aiutandoci ad elucidare i rapporti causa-effetto degli eventi di estinzione.
LA BUFALA MEDIATICA
La ricerca spasmodica del “sensazionale” nella comunicazione e nell’informazione lascia, spesso e volentieri, sempre più spazio all’inesattezza delle notizie che vengono trasmesse, e ciò danneggia irrimediabilmente il progresso, in questo caso scientifico, come ridicolizza uno tra gli obiettivi che l’informazione scientifica si pone (o che, a volte, non ancora si pone e dovrebbe porsi), ossia la trasmissione trasparente della conoscenza, a ciascun individuo indistintamente. Molte sono le fake news e le bufale su Carcharocles megalodon, cerchiamo di capire quali sono e come evitare la disinformazione.
Non una grande “Discovery” dopotutto
Una storia affascinante quella del Carcharodon megalodon, da sempre al centro dell’attenzione di molti e talvolta oggetto di improponibili bufale. Nonostante le dimostrazioni scientifiche di studi come quello di Catalina Pimiento, infatti, non sono mancate ipotesi a difesa di teorie sulla possibile esistenza dell’enorme creatura ancora oggi. Sicuramente numerose sono le ricerche in rete da parte di utenti curiosi di saperne di più sullo squalo gigantesco, che hanno come oggetto “video megalodon“, “video megalodonte”, o ancora “megalodonte avvistamenti”, fino a sentire l’esigenza di trovare delle vere e proprie foto, immagini o qualsivoglia testimonianza grafica che attesti l’esistenza del Megalodonte, esigenza che non verrà mai soddisfatta a pieno (a meno che non ci si accontenti di qualche modello osteo-anatomico). Qualche anno fa Discovery Channel ha proposto ai suoi telespettatori un documentario che metteva in dubbio le teorie scientifiche fornendo presunte prove e testimonianze volte a confermare la possibile presenza di Megalodon nei nostri oceani ancora oggi. Le testimonianze provenivano, però, da attori e non da veri esperti.
Molti altri sono stati gli eventi che hanno posto le solite basi per la nascita della grande bufala di Discovery. Uno dei fatti più rilevanti in merito risale al 1872, quando l’equipaggio della corvetta della Marina Reale Hms Challenger è riuscito a raccogliere campioni biologici e geologici dal fondale oceanico contenti noduli di diossido di manganese, ovvero delle particolari formazioni che si creano intorno al materiale precipitato sul fondo degli oceani. All’interno di due di questi noduli vennero rinvenuti enormi denti di squalo, subito attribuiti al Megalodonte.
Presunti avvistamenti e buchi nell’acqua
Nel 1959 il dottor Wladimir Tschernezky riuscì a stabilirne l’età basandosi sullo spessore dello strato di manganese che li ricopriva: i campioni avevano fra gli 11 e i 24 mila anni, non molti in termini geologici. Si iniziò, così, a prendere in considerazione la possibile sopravvivenza, nel corso del tempo, dello squalo Megalodonte. Tuttavia il metodo proposto da Tschernezky si rivelò un metodo senza alcuna validità: il tasso di deposizione del diossido di manganese negli oceani, infatti, varia in base alle condizioni ambientali. Negli anni ’60, però, iniziarono a diffondersi innumerevoli notizie di presunti avvistamenti di esemplari di Megalodonte, probabilmente suggestionati dai suddetti ritrovamenti e dalle analisi successive. Queste testimonianze, tuttavia, non sono niente di più che abbagli dovuti all’avvistamento di altre specie di selaci, squali elefante (cetorino o pellegrino) e squali balena (genere Rhincodon, lo squalo più grande attualmente esistente).
Una delle storie più note, a questo proposito, risale al 1918 quando David Stead, un naturalista australiano, riportò le testimonianze scioccanti di alcuni pescatori di Port Stephens: gli uomini di mare dichiararono con assoluta certezza di aver incontrato uno squalo Megalodonte. Tuttavia le versioni fornite dai presunti testimoni erano alquanto discordanti. Tanto per cominciare le dimensioni dell’animale avvistato variavano fra i 35 ai 90 metri e aveva un colore biancastro, e poi non erano riusciti a fornire ulteriori prove a difesa del loro presunto avvistamento. Ma allora il Megalodonte esiste davvero? No, si tratterebbe di una bufala, come confermato anche dalle ricerche condotte da Catalina Pimiento e dal suo team, una notizia falsa che nel tempo ha ingannato molti e che poi Discovery ha sfruttato con l’unico scopo di totalizzare un alto numero di visualizzazioni, scopo perfettamente raggiunto a scapito dell’ingenuità di milioni e milioni di curiosi telespettatori.
Fonte
- When Did Carcharocles megalodon Become Extinct? A New Analysis of the Fossil Record
NCBI - The Taxonomic and Evolutionary History of Fossil and Modern Balaenopteroid Mysticet
Journal of Mammalian Evolution - Exceptional preservation of the white shark Carcharodon (Lamniformes, Lamnidae) from the early Pliocene of Peru
Journal of Vertebrate Paleontology - Regional endothermy as a trigger for gigantism in some extinct macropredatory sharks
PLOS