La tripofobia è una bizzarra forma di disagio che colpisce sempre più persone particolarmente sensibili ad oggetti, reali o fotografati, contenenti gruppi ripetuti di buchi. Le reazioni che scaturiscono dalla semplice visione di questi oggetti scatenano delle risposte talmente ingiustificate da aver attirato l’attenzione degli studiosi.
IN BREVE
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Queste immagini ti hanno suscitato una sensazione strana simile alla paura o al disgusto? Oppure riesci ad osservarle per poco tempo prima di dover distogliere lo sguardo? Beh, se è così probabilmente soffri di una strana cosa chiamata tripofobia: una condizione di difficile definizione che sta a metà strada tra la fobia e il disgusto.
Tripofobia deriva dal greco τρύπος e φόβος, letteralmente significa “fobia dei buchi” ed è accusata da tutte quelle persone che, alla vista di immagini contenti cluster ripetuti come i buchi, hanno dalle vere e proprie reazioni funzionali (quali sudorazione e nausea) del tutto simili a chi soffre di aracnofobia (paura dei ragni), di quionofobia (paura della neve) o di eisoptrofobia (paura degli specchi). In realtà tutto ciò che riguarda questa predisposizione psicologica ha dei retroscena molto interessanti, a partire dalla sua origine. A differenza di tutte le altre patologie psichiatriche, la tripofobia (che in realtà non può essere definita patologia perché non è stata riconosciuta tale né tanto meno è entrata a far parte del DSM, il Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali) è figlia del web e del concetto di condivisione di foto, gif e video che sta alla base del mondo di internet.
Nel 2005 una foto raffigurante la geometria di un fiore di loto sul seno di una donna iniziò a rimbalzare da una casella di posta all’altra e poi da un sito web all’altro diventando presto virale. All’email era allegata una storia secondo cui i buchi nati sul corpo dell’antropologa fossero dovuti ad un’infezione che la stessa aveva contratto in Sud America. Si è scoperto poi essere tutto frutto di un fotomontaggio ma, stando ai commenti lasciati sotto le immagini, questi pattern ripetuti evocavano in alcune persone una risposta esagerata (palpitazioni, ansia, prurito) rispetto allo stimolo (immagine) che la determinava. Oggi pare che una parte consistente della popolazione reagisca a queste immagini in modo molto simile a quello che farebbe un soggetto affetto da disturbi d’ansia o da fobia specifica.
È bene definire dunque cosa sono le emozioni sotto esame per descrivere meglio la tripofobia: la paura è un sistema antichissimo e fondamentale nella vita non soltanto dell’essere umano ma di tutto il mondo animale. E’ un istinto che viene generato e modulato nella zona più antica del nostro cervello da tre strutture principali (grigio periacquiduttale, amigdala e ippocampo) ed è fondamentale per la sopravvivenza perché avvisa il corpo dell’imminente pericolo, abbassa la soglia del dolore, rende l’attenzione più selettiva e contemporaneamente mette in tensione i muscoli preparandoli ad un’eventuale fuga; se perde questa sua prerogativa di “protezione” però, la paura sfocia nel patologico e diventa fobia, panico o ansia.
L’ansia si differenzia dalla paura innanzitutto perché l’oggetto che la determina non è concreto e poi perché la reazione che il soggetto ha (attacco di panico) è fin troppo esagerata rispetto allo stimolo.
Il disagio/disgusto è, invece, un modo che attua il cervello per evadere da una situazione spiacevole (inducendo il soggetto a distogliere lo sguardo e/o allontanarsi da ciò che ha causato quelle sensazioni).
Nonostante negli ultimi anni gli studi clinici che si sono susseguiti per cercare di definire meglio questa bizzarra condizione siano stati molti, non è ancora stato raggiunto un risultato condiviso dalla comunità scientifica.
Nel 2006, studi condotti sulla risposta inconscia dei bambini (e sono stati scelti loro come soggetti del test proprio per evitare che la loro reazione potesse essere condizionata dall’effetto massa a cui molte persone sono soggette dall’avvento dei social network) a immagini rappresentanti cluster di figure geometricamente perfette, hanno fatto ipotizzare che la paura inconscia non sia da ricercare nel disagio visivo che le immagini suscitano di per sé ma sia più che altro da attribuire alle caratteristiche che queste hanno con i fenotipi degli animali pericolosi o dei virus. Da questo studio è dunque emerso che la tripofobia altro non è se non un meccanismo di difesa inconscio che protegge da un potenziale pericolo.
Nel 2010, prende piede quella che viene definita “teoria matematica” ideata dai professori dell’Università dell’Essex Wilkins e Hibbard. Questi hanno studiato le immagini tripofobiche applicando la teoria di Fourier e dimostrando che esse hanno lo stesso spettro visivo degli animali che esibiscono questa ripetitività ottica e che sono pericolosi per la nostra specie. Scoprirono inoltre che i sintomi propri della tripofobia dipendono dal fatto che il cervello dovrebbe consumare più del 20% di ossigeno per elaborare figure geometricamente perfette e, per evitare di lavorare per nulla (sì, anche il cervello “ragiona” secondo il rapporto rischio/beneficio) indurrebbe una sensazione di malessere. Per tale motivo quindi nel 2010 la paura dei buchi non è più da considerare una fobia ma più che altro una manifestazione di disagio che il nostro cervello utilizza sia per mantenere al minimo il consumo di ossigeno, sia per evitare velocemente situazioni di potenziale contaminazione.
Dal momento però che i soggetti che affermano di soffrire di tripofobia aumentano, nel 2015 è stato condotto un altro studio, questa volta online, che ha sottolineato quanto questa sensazione di disagio sia sperimentata nei soggetti affetti da altre patologie quali la depressione maggiore e il disturbo ossessivo-compulsivo e che, proprio per questo motivo, merita ulteriori approfondimenti.
Nonostante tutto la vera natura della tripofobia rimane dunque avvolta nel mistero e, nonostante se ne parli ormai da dodici anni, non sappiamo neanche se sarà mai riconosciuta scientificamente e inserita nel DSM. Tuttavia essa è diventata tanto diffusa da aver attirato persino l’attenzione dei produttori di American Horror Story che hanno dedicato alla tripofobia una parte dell’ultima stagione così da arricchire ulteriormente il profilo psicologico della protagonista affetta da disturbo d’ansia generalizzato.