Le nuove tecnologie ci espongono quotidianamente a un flusso costante di informazione e disinformazione. Abbiamo gli strumenti per riconoscere le notizie false. Eppure ci caschiamo. La sociologia ci spiega perché.
IN BREVE
La disinformazione è sempre esistita, nei vecchi e nuovi media. Ma è con la diffusione delle nuove tecnologie di comunicazione – smartphone in primis – e l’esigenza di un flusso continuo di notizie che il fenomeno delle bufale sul web ha raggiunto nuovi livelli di importanza. Ogni giorno l’utente di internet si imbatte in un’enorme quantità di fonti di informazione, siano esse giornali online, blog o post sui social. Generalmente leggerà di sfuggita i titoli, scorrendo lungo la pagina. Ma anche quando aprirà un articolo, nel 55% dei casi la sua permanenza non durerà più di 15 secondi. Leggiamo sempre più notizie in modo sempre meno approfondito, ed è proprio questa mancanza di attenzione a permettere alle notizie false di proliferare. Come ci hanno insegnato le elezioni statunitensi 2016. Ma andiamo con ordine.
Victoria Rubin, Yimin Chen e Niall Conroy, esperti della University of Western Ontario, distinguono tre categorie di notizie false. Abbiamo da una parte i falsi satirici, ovvero articoli di finti giornali come l’americano The Onion e il nostro Lercio, dal tono esplicitamente ironico e il semplice intento di fare sarcasmo su fatti e costumi del presente. Si tratta naturalmente di creazioni in buona fede, difficilmente classificabili come fake news, ma che riescono sempre a essere travisate da qualche ingenuo lettore, ignaro della satira cui si trova davanti.
Seconda categoria è quella delle fabbricazioni serie, contenuti mediatici appositamente creati per essere ingannevoli e diffondere un pensiero che orienti l’opinione pubblica. È il caso, per esempio, dello storico Protocollo dei Savi di Sion, il presunto piano di conquista del mondo da parte dei capi ebrei che giustificò gran parte dell’antisemitismo del Novecento; o del ben più recente scandalo “Pizzagate”, nato da bufale su Facebook che accusavano Hillary Clinton di gestire un ring di pedopornografia e che, nonostante la smentita, hanno convinto un ragazzo ad aprire il fuoco nella pizzeria di Washington presunto quartier generale dei traffici. Si tratta del tipo di notizie false più frequenti e pericolose per le conseguenze dirette sulla realtà.
Ultima categoria è quelle delle bufale su larga scala, disinformazione a lungo raggio diffusa lentamente ma capillarmente come voce di corridoio, fino a influenzare gran parte della popolazione. L’esempio più attuale ci è dato dal falso mito secondo cui i vaccini provocherebbero autismo, ma sono molte le credenze comuni che trovano posto in questa classificazione.
La questione delle fake news è stata portata sotto i riflettori dalle elezioni presidenziali americane dello scorso anno. Uno studio comprensivo condotto dai ricercatori della Stanford University Hunt Allcott e Matthew Gentzkow avrebbe dimostrato che un totale di 115 diverse storie fittizie pro-Trump e 41 pro-Clinton sarebbero state diffuse sul web, toccando i 37,6 milioni di condivisioni via social. Ciascun articolo, anche se dichiaratamente infondato, avrebbe avuto un potere di influenza equivalente a 36 spot di campagna televisiva. E a nulla sarebbero valsi i tentativi di sensibilizzare i cittadini a una lettura più responsabile, tanto che nelle ultime settimane prima delle elezioni le prime 20 bufale su Facebook avrebbero raggiunto da sole i 9 milioni di condivisioni. Un risultato che nemmeno i maggiori news outlet come New York Times e Washington Post tutti insieme sono stati in grado di eguagliare. Paradossalmente, queste storie hanno raccolto più consensi proprio quando erano già state smascherate da tempo.
Ma se siamo in grado di riconoscere fonti e informazioni inaffidabili, cosa ci spinge a prenderle per vere? Una risposta ci viene da quelle che in sociologia dei mass media sono definite teoria dell’influenza selettiva e two-step flow theory. La prima afferma che attenzione, percezione e memorizzazione di un soggetto non sono equipartite fra i messaggi a cui è esposto. In altre parole, differenze cognitive, diversi interessi e soprattutto convinzioni pregresse di un individuo non determinano solo l’opinione che si farà su un certo argomento, ma il modo stesso in cui il suo cervello recepirà il messaggio: una sola frase concorde con un nostro pregiudizio sarà meglio memorizzata e avrà per noi più valore rispetto a intere pagine di precisa argomentazione di una firma autorevole. Al contrario, un messaggio di propaganda sarà in grado di influenzarci solo in parte o se riguarda un tema di cui non sappiamo nulla. Quanto maggiori saranno le esperienze personali o le convinzioni precedenti, tanto più rigetteremo il nuovo pezzo di informazione, a prescindere dalla fondatezza sia della notizia, sia dei pregiudizi. Anzi, il meccanismo difensivo di giustificazione contro la minaccia di un’opinione discorde porterà a rafforzare l’idea preesistente: un convinto sostenitore di un politico corrotto aumenterà la sua fedeltà di fronte ad articoli che ne rivelino gli scandali, poiché li percepirà come tentativi dell’opposizione di screditarlo.
La teoria del two-step flow of communication è una sorta di evoluzione dell’influenza selettiva. All’importanza dei pregiudizi aggiunge quella dell’opinione del gatekeeper, o opinion leader, una persona considerata affidabile e tenuta in grande considerazione, che svolge una funzione da intermediario nei messaggi mediatici. Si tratta di solito di un influencer, ma può anche essere un familiare, un amico, un blogger, un certo giornalista o politico e via dicendo. L’opinion leader è il primo di un gruppo sociale a essere raggiunto dai media, e ne diffonde i contenuti al resto della massa. Una notizia, anche falsa, diffusa attraverso un gatekeeper assume per l’individuo garanzia di verità semplicemente grazie al legame di fiducia. È in questo modo che il passaparola può convincere intere masse di persone: il rapporto emotivo con chi ci sta trasmettendo notizie false le rende immediatamente affidabili. In gruppi stretti di persone, come nuclei familiari e compagnie di amici, le opinioni saranno sempre almeno in parte simili proprio grazie all’influenza reciproca che si esercita sugli altri.
Le cose non migliorano se consideriamo le reti di amici e conoscenti create attraverso i social network, primi vettori di diffusione di notizie false: uno studio di Eytan Bakshy, Solomon Messing e Lada Adamic (2015) è riuscito ad approssimare il livello di omofilia su Facebook, ovvero la tendenza a entrare in contatto solo con persone che condividono le stesse idee politiche, attestandolo su una media del 70% sia per individui schierati a destra che a sinistra. Dal momento che l’algoritmo del news feed dei social prende in considerazione sia la propria cronologia sia quella dei contatti – fra cui è probabile si trovi anche un certo numero di opinion leaders -, vediamo come l’informazione del web sia in grado non solo di generare bufale, ma anche di innescare da sola la reazione a catena che porterà milioni di persone a crederci.
Benché siano noti i meccanismi con cui si diffondono, le bufale del web restano una minaccia difficile da contrastare per la natura stessa di internet, in cui la libertà di espressione permette a chiunque di fare newsmaking, a prescindere dalle buone o cattive intenzioni. Ai tentativi di tenere sotto controllo l’affidabilità delle notizie si stanno affiancando nuovi mezzi di sensibilizzazione dei lettori online, vedi l’ormai celebre infografica distribuita dalla Iternational Federation of Library Associations and Institutions come semplice riassunto per una navigazione responsabile. Ma la differenza saranno solo gli utenti a farla, se svilupperanno le capacità critiche per identificare ed evitare le notizie false in cui si imbattono ogni giorno. E porre fine alla spirale della disinformazione.
Fonte
- Exposure to ideologically diverse news and opinion on Facebook
Science - Social Media and Fake News in the 2016 Election
Stanford University - Deception Detection for News: Three Types of Fakes
Proceedings of the Association for Information Science and Technology - Chartbeat CEO Tony Haile: What You Get Wrong about the Internet
Time - Sociologia dei mass media
M. Sorice – Carocci