Quali sono le potenzialità della nostra mente? Cosa è in grado di fare il cervello dell’uomo che nessun altro in natura può imitare? Un breve viaggio tra le più importanti funzioni cognitive, i processi che governano ogni nostra interazione con il mondo e con noi stessi.
IN BREVE
È quasi ora di cena in una normale casa di famiglia. Il bambino ha un po’ di appetito, così va in cucina, dalla mamma indaffarata ai fornelli, e chiede cosa si mangia. Una serie di azioni semplicissime ed estremamente comuni. Quali processi ha intercorso la mente del ragazzo per metterle in atto? Apparentemente, la situazione sarebbe di stimolo fisiologico (fame) e tentativo di rispondere allo stimolo insorto, in un semplice rapporto causa-effetto. In realtà, nel cervello sono successe molte più cose, dall’interocezione del bisogno, al ragionamento che vede l’ambiente cucina e l’individuo mamma che possibile soluzione, a loro volta concetti appresi negli anni, la formulazione della domanda sia nella mente sia dispiegandola in linguaggio, le implicazioni metacognitive dell’intenzione “mamma, da questa domanda capisci che ho fame”… Il cervello è un fermento di molteplici funzioni cognitive, tutte finalizzate alla stessa, semplicissima azione. Vediamo quali sono.
Il dizionario psicologico dell’APA (American Psychological Association) definisce il funzionamento cognitivo come la “prestazione dei processi mentali di percezione, apprendimento, memoria, comprensione, consapevolezza, ragione, giudizio, intuizione e linguaggio”. Questa lista di facoltà psichiche altro non è che un sunto delle principali funzioni cognitive della mente umana, quell’insieme di capacità che, combinate tra loro, rendono possibile la vita come la conosciamo. Solo nominarle non rende l’idea di quanto ciascuna di esse sia fondamentale per noi, anche in situazioni in cui non sembrerebbero contemplate. Proviamo quindi a dare uno sguardo approfondito su alcune delle più importanti.
Per essere dobbiamo sentire. La percezione è il processo di conoscenza di oggetti, eventi o relazioni, interne o esterne, attraverso l’interpretazione di stimoli. Include sia l’attività di attribuzione di significato ai segni che arrivano al cervello, sia la vera e propria lettura dell’ambiente tramite i sensi. Insieme ai cinque conosciuti, gioca un ruolo importantissimo la propriocezione, ossia la capacità del corpo di determinare la propria posizione ed estensione nello spazio, senza il supporto di altri canali sensoriali. Se camminando non abbiamo bisogno di misurare a occhio la distanza di ogni passo prima di poterlo compiere, è perché grazie ai ricettori cinestetici sparsi nel corpo manteniamo un controllo costante sullo stato dei nostri muscoli e tendini. Si tratta di una funzione sensoriale generalmente involontaria, che lavora in sottofondo pur permettendo di essere controllata spontaneamente. Questa desensibilizzazione, ovvero la sua caduta in abitudine, è ciò che ci permette di svolgere qualsiasi azione, da camminare per strada a scrivere su una tastiera, senza doverci concentrare a misurare ogni movimento.
Un caso interessante di come più funzioni cognitive possano entrare in conflitto è dato dai cosiddetti dolori fantasma o phantom pain. Sono sensazioni, spesso accompagnate da forti mal di testa, che si manifestano in chi ha subito un’amputazione o la rimozione di un occhio. Secondo alcune teorie formulate in materia, sarebbero causate da un conflitto tra il sistema visivo, propriocettivo e tattile dell’individuo, che percepisce per esempio il suo arto mancante, e la sua memoria propriocettiva che ricorda ancora quella parte del corpo come funzionante. Allo stesso modo, non è raro che in seguito alla rimozione di un occhio si assista ad allucinazioni, anche se nell’orbita resta solo la terminazione denervata e quindi incapace di cogliere stimoli esterni. Ci vorrà un po’ di tempo prima che tutti i mezzi di percezione si abituino al “nuovo corpo” e alle sue parti mancanti.
Torniamo a noi, e proviamo a fare un semplice esperimento. Prendete il vostro cane e, senza dire niente, indicategli qualcosa. A meno che sia stato appositamente addestrato, quello che farà sarà ignorare la vostra indicazione, guardare la mano incuriosito e al più annusarla un po’. Può capire che gli state dando un segnale, ma non che cosa intendete con quell’indice puntato. La stessa cosa si apprezza in un bambino di pochi mesi, che proverà a raggiungere il dito con le sue manine, senza la minima idea di cosa significhi. L’atto di indicare è solo un esempio di tutti quei segni che diamo per scontati al punto da crederli innati, ma che non sono affatto naturali. Ed essendo convenzioni, dietro a ciascuno di essi c’è un processo di apprendimento che ci ha insegnato a collegare quel gesto a un dato concetto. Oltre naturalmente a uno specifico linguaggio inteso come sistema di codici e correlazioni.
Ma se evidenze del primo non si faticano a trovare nel mondo animale – sappiamo bene che l’intelligenza cognitiva dei nostri amici a quattro zampe li rende in grado di imparare cose nuove, sia insegnate sia dalla propria esperienza – la proprietà di linguaggio sembra una facoltà riservata all’uomo. È importante ricordare che, in questo ambito, la nozione di linguaggio presuppone un sistema di segni fissati arbitrariamente. Per esempio, una persona o animale che geme dopo aver subito un dolore esprime sì un fonema e un’idea (o meglio uno stato d’animo) ma si tratta solo di una risposta disarticolata a uno stimolo. Il punto di vista tradizionale di biologi e linguisti ritiene che i versi animali, utilizzati soprattutto per esprimere emozioni e non concetti, sia da intendersi come forma di comunicazione ma non come linguaggio.
Fatta la regola, trovato l’inganno: ovviamente anche nel mondo animale esistono eccezioni, con alcune specie in grado di emettere e recepire versi che hanno significato simbolico, “socialmente” stabilito. È il caso di diversi uccelli, roditori e molti primati, che utilizzano richiami appositi per avvertire i propri simili della presenza di cibo o predatori. Non sono fonemi iconici (come emulare il suono di un animale per indicarlo), ma segnali simbolici a tutti gli effetti. Anzi, in casi come quello del cercopiteco verde, si possono distinguere richiami diversi a seconda del tipo di predatore – serpenti, leopardi o aquile -, mostrando un sistema di contenuti ancora più elaborato. Non solo, è stato studiato come l’esperienza della scimmia cambi l’uso che si fa di tali richiami, con esemplari più giovani che tendono a esagerare e dare emergenza ogni volta che cade qualcosa dagli alberi, mentre gli anziani riescono a limitare le segnalazioni solo alle specie di predatori che si nutrono di cercopitechi.
Certo non saranno dissertazioni filosofiche, ma questi messaggi (detti segnali funzionalmente referenziali) sono un indicatore importante dello sviluppo delle funzioni cognitive animali. Una cosa interessante è metterle a confronto con le capacità della mente umana nei primi mesi di sviluppo. Per esempio, il riconoscimento di sé è un’altra abilità cognitiva non esclusiva dell’uomo, anzi, neppure in uso nelle fasi iniziali della crescita. Il celebre test dello specchio, in cui il soggetto esaminato viene posto di fronte a uno specchio ed è in grado (o no) di riconoscere un segno colorato applicato sul suo corpo, dà risultati negativi per bambini fino a un anno e mezzo/due anni di vita. Essere capaci di riconoscersi nell’immagine riflessa, e quindi provare a rimuovere il segno, è indicatore di una sviluppata consapevolezza di sé, del proprio aspetto e del senso di spazialità. È una caratteristica innata di molti Hominoidea (essere umano e primati), tanto da restare spesso intatta o solo ritardata anche in presenza di gravi disfunzioni cognitive dovute a disabilità. Tuttavia, è stata riscontrata in famiglie di delfini, elefanti, uccelli e persino qualche insetto, animali che nei test sono stati per esempio in grado di sfruttare una superficie riflettente per elaborare strategie per raggiungere del cibo posto fuori portata, non solo individuandosi nello specchio ma sfruttandolo per acquisire informazioni spaziali.
Un’ultima particolare funzione cognitiva è quella, studiata solo negli umani per ovvie questioni di comunicazione, di metacognizione, ovvero i pensieri sui propri pensieri. Il caso più evidente è il fenomeno della “punta della lingua”, ovvero quando ci rendiamo conto di sapere un certo nome, ma non riusciamo a ricordarlo distintamente. Eppure la consapevolezza di tale informazione esiste, e ne siamo perfettamente coscienti. O il déjà vu, l’impressione di aver già memoria di una situazione, rientra appieno nella categoria dei fenomeni mentali metacognitivi.
L’elenco delle funzioni andrebbe avanti all’infinito, nella molteplicità degli ambiti in cui le abilità del cervello possono spaziare. La mostruosa complessità di ciò che la mente è in grado di elaborare, insieme alla naturalezza con cui ci riesce, può rendere la più elementare delle azioni – il ragazzino che chiede della cena – un’affascinante dimostrazione di cosa la natura è stata capace di creare.
Fonte
- APA Dictionary of Psychology
American Psychological Association - Phantom Limb Pain
The Neurologist - Animal communication, animal minds, and animal language
University of Lund - Self-recognition in an Asian elephant
NCBI - Delayed Self Recognition in Autism: A Unique Difficulty?
NCBI