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La discriminazione razziale è una problematica molto presente nello scenario attuale e allo stesso tempo ricorrente nella storia dell’uomo. Ma cosa ci spinge a discriminare una popolazione che sia diversa da noi, per esempio, per cultura o religione?
IN BREVE
La discriminazione razziale è un tema molto attuale, ma anche di rilevanza storica, in quanto si pone spesso alla base dei conflitti fra popolazioni, gruppi religiosi e politici. Facilmente, quando si parla di razzismo, si richiamano alla mente eventi come la shoah e le purghe staliniane. Purtroppo, non sempre gli errori del passato ci guidano verso una più corretta direzione nel presente, così oggi si presentano ancora forme di razzismo. Si pensi ad esempio al clima odierno di discriminazione razziale in Italia, per quel che riguarda i fenomeni migratori. La breve analisi qua presentata cerca di far luce su come questo fenomeno si sia sviluppato nella nostra specie, durante l’evoluzione, e su come il razzismo si presenti nelle interazioni sociali.
Consideriamo innanzitutto che il razzismo si basa sulla differenziazione tra il nostro gruppo, culturale, religioso o di qualsivoglia natura, ed un gruppo esterno. Oltre alla differenziazione, attuiamo un processo di esaltazione delle nostre caratteristiche positive e di quelle negative del gruppo esterno, eseguendo un confronto impari tra essi. È evidente che in primis vi deve essere un processo di costruzione del gruppo e della sua identità.
Origini della discriminazione razziale: naturali o culturali?
Interessante è il resoconto svolto da Tomasello in “Storia naturale della morale umana”. L’autore segue un percorso per identificare in quale modo e quando, nel processo evolutivo, l’uomo sia giunto a costruire una concezione morale del comportamento. Mette così in evidenza come si siano sviluppati i primi gruppi sociali. L’analisi comportamentale dei primati più vicini all’uomo (come gli scimpazè) indica come la collaborazione continuativa nel tempo sia una caratteristica prettamente umana. Questa caratteristica è molto importante perché sta alla base della costruzione prima di una diade e poi di un gruppo sociale.
Questa collaborazione, necessaria per procurarsi cibo, ha permesso lo sviluppo di un primitivo senso di interdipendenza. Il concetto di base è che se noi collaboriamo e rispettiamo il ruolo che stiamo assumendo, allora riusciremo a procurarci le risorse necessarie per vivere. Fondamentale però, era la consapevolezza che il ruolo svolto nella collaborazione non fosse legato alle caratteristiche della persona, che quindi era facilmente sostituibile. Questo ha comportato due conseguenze: innanzitutto per sopravvivere devo collaborare e devo farlo bene cosicché il mio compagno non decida di interrompere il nostro impegno. In secondo luogo, sempre per le stesse premesse, devo trattare il mio compagno con dignità, perché noi siamo uguali.
Dunque, la nostra specie ha iniziato a formare coppie collaborative spinta da una necessità fisiologica. Il processo evolutivo però ha portato una nuova sfida a cui i nostri antenati hanno dovuto rispondere: la competizione per le risorse del territorio. In questo modo la collaborazione nella diade inizia ad espandersi, andando via via a formare gruppi sociali più numerosi. A questo punto la collaborazione non poteva basarsi sulla conoscenza di ogni compagno, ma sullo sviluppo di un senso di fiducia verso il proprio gruppo. Data la numerosità, non era più possibile conoscere personalmente ogni singolo individuo, per cui bisognava farsi riconoscere. I gruppi sociali iniziano così a distinguersi ed ogni individuo appartenente ad un gruppo ne farà proprie le caratteristiche distintive. Ecco dunque che prende il via lo sviluppo, in forma ancora grezza, dell’identità sociale.
Come, dal senso di dignità e fiducia verso il nostro gruppo, siamo passati a denigrare degli altri? Inoltre, perché queste forme di razzismo sono giunte ad un’aperta competizione?
I recenti studi di Henri Tajfel
Fino agli anni Settanta era dominante la teoria del conflitto realistico, secondo cui la competizione fra gruppi e razze umane dipende dalla lotta per le risorse. In realtà Tajfel, uno dei più influenti studiosi del settore, svolse diversi esperimenti contrapposti alla visione dominante. I suoi studi nascono dall’esperienza discriminatoria vissuta durante il periodo nazista, che lo portò a chiedersi perché i gruppi sociali entrano in conflitto. Tajfel sviluppò una serie di studi, noti come studi sui gruppi minimali, con alcune caratteristiche fisse:
- I due gruppi venivano caratterizzati come ingroup (gruppo di appartenenza) e outgroup (gruppo esterno) sulla base di un criterio banale, non rilevante per gli individui coinvolti;
- I partecipanti non si conoscevano tra loro e non vi erano interazioni faccia a faccia;
- Non si otteneva nessun vantaggio personale dai comportamenti messi attuati.
Negli esperimenti si distribuivano risorse ai membri dei due gruppi e a sé stessi con lo scopo di individuare le strategie utilizzate dall’individuo per farlo. È importante tenere a mente che la situazione sperimentale creata non implicava la necessità di lottare per le risorse, in quanto erano sufficienti. Gli studi portarono all’identificazione di quattro strategie differenti: equità, massimo profitto per l’ingroup, massimo profitto congiunto e massima differenziazione. Si mostrò che vi era una netta preferenza per la massima differenziazione tra i gruppi, per cui i soggetti non si accontentavano di ottenere il massimo profitto per l’ingroup, ma si impegnavano in comportamenti competitivi verso l’outgroup.
Ancora, dobbiamo ricordarci che negli studi sui gruppi minimali non vi era una differenziazione basata su ideali, bensì una categorizzazione derivante da un criterio banale. Ovviamente, la storia ci insegna che non tutti coloro che vissero durante il periodo nazista e fascista adottarono comportamenti discriminatori, così come anche in questi esperimenti era comunque presente l’utilizzo della strategia dell’equità.
Questi esperimenti dimostrano come la discriminazione razziale avvenga in situazioni irrilevanti per la vita dell’individuo. Possiamo quindi immaginare la facilità con cui si possano sviluppare dinamiche razziste all’interno del contesto sociale. Un ruolo importante in questo lo gioca la nostra identità sociale, ovvero quella parte della nostra identità che è costituita dagli elementi tipici dell’ingroup e che solo all’interno di un gruppo sociale si può creare. Così come qualifichiamo positivamente il nostro gruppo, allo stesso tempo riconosciamo l’outgroup indicandone le caratteristiche negative. Questo processo appare evidente nei fenomeni di discriminazione razziale indirizzati ad uno specifico gruppo, il quale si basa spesso su pregiudizi creati dal gruppo di appartenenza.
Cosa ci spinge quindi a competere con l’outgroup e a discriminare chi è diverso da noi? Come per le altre componenti della nostra identità, per esempio quella di genere, anche l’identità sociale ci caratterizza e ci descrive. La necessità di proteggere (anche solo idealmente) il proprio gruppo, nasce dalla necessità di proteggere noi stessi, di affermare la nostra persona; questo bisogno non dovrebbe però implicare la discriminazione verso gli altri.
L’esperimento di Muzafer Sherif
Vorrei presentare un tipico esperimento di Sherif, che ci dimostra quanto sia facile sia creare la competizione fra gruppi, sia incoraggiare la cooperazione tra i membri degli stessi.
Questi studi coinvolgevano un gruppo di adolescenti americani che, non consapevoli di partecipare ad un esperimento, trascorrevano due settimane in un campo estivo. Nella prima fase, i ragazzi svolgevano diverse attività tutti insieme fino a che, nella seconda fase, non venivano divisi in due gruppi. Gli amici più stretti erano così separati e le attività collettive sospese. Si arriva alla terza fase, in cui si introducono attività di aperta competizione tra i gruppi, che innescano i meccanismi di coesione interna al gruppo e di ostilità, con creazione di stereotipi negativi verso l’altro gruppo. Inoltre, questo astio non cessava al termine delle attività competitive, il che ci indica come questi pregiudizi si radichino in profondità nel nostro sistema di credenze. Nella quarta fase dell’esperimento però, la situazione mutava: l’inserimento di un semplice scopo al di sopra dei gruppi, comportava una diminuzione della tensione ed un aumento dei comportamenti collaborativi.
Cosa possiamo fare quindi, nel quotidiano, per promuovere un comportamento pro-sociale? Così come di norma apprezziamo e cerchiamo di far nostri i comportamenti positivi che osserviamo negli altri, allo stesso modo dovremmo imparare a stimare le diversità esistenti e a condividere comportamenti utili allo sviluppo di una più profonda tolleranza. Per sentirci parte di un gruppo non dobbiamo per forza condividere il colore della pelle, la religione o le tradizioni; dovremmo tutti noi sentirci uniti da un unico scopo: il benessere collettivo.
Fonte
- Storia naturale della morale umana
Michael Tomasello - Psicologia sociale
David Myers - Social identity and intergroup behaviour
SAGE journals