Il clonaggio genico è una delle tecniche più usate nei laboratori di biologia molecolare. Grazie alle applicazioni analitiche di elettroforesi che permettono un controllo a posteriori della riuscita del clonaggio, consente l’ingegnerizzazione di geni e genomi. Si tratta sicuramente dell’applicazione più importante a cui hanno condotto gli studi sul DNA degli ultimi decenni e sta alla base della moderna ricerca scientifica.
IN BREVE
Indice
CLONAGGIO GENICO: GENERALITÀ
Quando facciamo riferimento al clonaggio dobbiamo fare attenzione a distinguere un organismo clonato da un clone genico. Per clone si intende un organismo geneticamente uguale al genitore. Per clone genico, invece, si intende un DNA in sequenza identico al DNA progenitore. Il clonaggio di cui tratteremo comprende le procedure di clonaggio genico che al momento sono tra le più utilizzate presso i laboratori di biologia molecolare. Le sue applicazioni sono svariate permettendo la produzione di DNA, RNA e proteine ricombinanti. Per effettuare un clonaggio genico, bisogna trasferire il gene desiderato, precedentemente isolato, per inserirlo all’interno del genoma di un batterio. I batteri, infatti, sono gli organismi che si replicano con più rapidità. Inoltre, trattandosi di procarioti, la loro coltura in laboratorio risulta piuttosto semplice. Il clonaggio genico può sfruttare anche altri tipi di vettori, e cioè di genomi che ospiteranno l’inserto di DNA esogeno che si vuole clonare: i batteriofagi, ad esempio, fra cui il più comune il fago λ, sono spesso utili a questo proposito. Il trasferimento dell’inserto, d’altronde, può avvenire a livello del genoma batterico o presso altri vettori quali plasmidi o DNA fagici. Questi ultimi sono i clonaggi più ampiamente utilizzati. Se si tratta di una molecola di piccole dimensioni si può facilmente agire in vitro, altrimenti sarà necessario sfruttare un clonaggio in vivo. Le fasi che stanno alla base della procedura di clonaggio comprendono:
- L’estrazione del DNA del vettore batterico;
- La modifica del vettore mediante ricombinazione in vitro:
- Il reinserimento del vettore modificato (ricombinante) nel batterio.
Il clonaggio genico in vivo comporta l’inserimento del DNA esogeno nel genoma batterico e comprende diverse fasi:
- La preparazione in vitro del DNA da inserire;
- L’inserimento del DNA nel batterio;
- L’integrazione del DNA esogeno nel cromosoma mediante ricombinazione omologa, ricombinazione sito-specifica o trasposizione.
Cosa a cui bisogna fare più attenzione è la valutazione del segmento del vettore in cui si vuole integrare l’inserto: se si inattivassero geni housekeeping del batterio, necessari cioè allo svolgimento del suo metabolismo basale e alla sua sopravvivenza, si giungerebbe alla morte di tutti i batteri ricombinanti e non si riuscirebbe a ottenere nulla di utile. Queste valutazioni richiedono molta dedizione ed esperienza, anche perché sappiamo che genomi batterici e plasmidi non possiedono grosse sequenze spaziatrici fra un gene e l’altro, come invece accade per i geni eucariotici: un errore nell’inserimento del DNA esogeno anche solamente per una traslazione di poche basi potrebbe essere causa dell’inattivazione di un gene fondamentale alla sopravvivenza del batterio.
TERRENI DI CRESCITA BATTERICA
I terreni nei quali far crescere i batteri, sia quelli liquidi che quelli solidi, devono essere sterilizzati prima di poter essere utilizzati, per limitare al minimo le contaminazioni esterne che potrebbero andare a incidere sulla riuscita e corretta interpretazione del clonaggio. I metodi di sterilizzazione più utilizzati sono:
- l’autoclave: utile a sterilizzare plastiche e vetro. Uccide tutti i microorganismi eventualmente presenti sulle pareti del contenitore e nei terreni, spore comprese, e sfrutta vapore bollente a temperature di 121°C per 20 minuti;
- filtri da 0.22 μm: permettono il passaggio di soli virus e in casi estremi di batteri piccolissimi come i micoplasmi. La filtrazione si deve svolgere sotto cappa a flusso laminare in ambiente sterile;
- l’irraggiamento con raggi gamma: utile a sterilizzare le plastiche da parte della ditta che le produce. I biologi molecolari, infatti, sfruttano sole plastiche monouso.
Per clonare in genere si passa sempre attraverso Escherichia Coli, il batterio più studiato e meglio conosciuto dai biologi molecolari, anche nel caso di clonaggi genici volti a sperimentazioni su organismi superiori. Il ceppo K12 è il capostipite dei ceppi di Coli usati in laboratorio. A partire da questo, sono stati prodotti mutanti per alcuni geni utili ai diversi scopi di analisi di laboratorio. Perchè si possa lavorare attraverso organismi batterici è necessario riuscire a ottenere una coltura liquida nella quale si possa favorire la crescita batterica. La piastratura, e quindi la crescita su terreno solido, è utilizzata per le analisi successive al clonaggio che quindi vogliono verificarne la riuscita, e non per l’amplificazione del numero di cellule batteriche iniziali.
Metodi di stima e conteggio della popolazione cellulare batterica
Per stimare il numero di cellule presenti all’interno di un terreno liquido, considerando che sarebbe sicuramente impossibile riuscire a contarle singolarmente, si possono utilizzare diverse metodologie. Usando uno spettrofotometro, ad esempio, si può stimare la grandezza della popolazione batterica in base al livello di torbidità della soluzione. Questo strumento è utile per la misurazione dell’assorbimento e viene utilizzato a 600 nm, lunghezza d’onda del visibile. Si è stimato che una unità a 600 nm corrisponda a 800 milioni di cellule al millilitro. Alternativamente si possono usare emocitometri: questi strumenti sfruttano particolari vetrini che presentano una struttura a camere definite, una sorta di griglia disegnata. Contando le cellule per ciascuna cella si stima la concentrazione delle cellule in sospensione.
L’aspetto negativo che caratterizza entrambe questi metodi di stima della popolazione batterica sta nel fatto che le cellule vive non sono distinte da quelle morte. Per contare le cellule batteriche vive si usa la titolazione: la coltura si piastra, una volta diluita, e si contano le colonie poiché ciascuna colonia sarà stata originata da un singolo batterio iniziale. Così si può risalire alla concentrazione cellulare iniziale. Diluizioni successive sono utili a prelevare e piastrare un basso numero di cellule per evitare che la piastra si ricopra di colonie continue non contabili.
CLONAGGIO GENICO: LE FASI ESSENZIALI
Il clonaggio genico si compone di diverse fasi tutte della medesima importanza poichè ciascuna è fondamentale alla corretta riuscita della successiva e quindi dell’intero processo di clonaggio. Un plasmide batterico da utilizzare come vettore per un clonaggio deve sempre contenere una origine di replicazione autonoma (Ori), un marcatore di selezione, come una resistenza a un antibiotico, e un sito di clonaggio, quindi un sito di restrizione unico che non ricada nelle sequenze dei geni housekeeping o in quella di Ori. Eventualmente possono essere utilizzati vettori con più di una sequenza di inserzione utile, multiple cloning sites, l’importante è che nessuna di queste ricada nelle sequenze utili alla sopravvivenza del batterio. Le fasi principali di clonaggio sono:
- Crescita, lisi e purificazione plasmidica: i momenti di crescita e lisi batterica sono fondamentali per ottenere buone quantità di plasmidi ”vuoti” di partenza, da utilizzare poi per inserirvi il DNA esogeno di interesse. Il contenuto cellulare andrà poi purificato perchè in soluzione si ottengano i soli plasmidi;
- Reazioni di clonaggio in vitro: comprendono quei processi utili all’inserimento del DNA esogeno nel plasmide vuoto. Utilizzano enzimi di restrizione e DNA ligasi, utili al taglio, all’appaiamento e alla corretta richiusura del nuovo DNA plasmidico;
- Trasformazione artificiale: non si utilizza quella naturale perché la quantità di DNA da trasferire è troppo grande e sarebbe pressoché impossibile ottenere l’inserimento del DNA esogeno. Nuove cellule batteriche prive di plasmide sono rese competenti per la trasformazione: questa può avvenire per trasformazione chimica o per elettroporazione;
- Selezione dei trasformanti: considerando che del plasmide iniziale si è mantanuta la sua caratteristica distintiva, come ad esempio nella maggior parte dei casi una resistenza a un antibiotico, piastrando le cellule su terreno specifico in base al plasmide utilizzato si potranno selezionare i trasformanti. Solo le cellule batteriche che avranno ricevuto il plasmide, e dunque quelle per le quali la trasformazione avrà funzionato, riusciranno a sopravvivere su un terreno contenente l’antibiotico per cui il plasmide possiede la resistenza, quindi solamente i trasformanti daranno origine a colonie;
- Selezione dei ricombinanti: i batteri delle colonie fatte crescere su piastra devono essere analizzate per osservare quali sono i veri ricombinanti. Errori di clonaggio, infatti, potrebbero aver creato numerosi plasmidi vuoti poiché, prima ancora che l’inserto fosse integrato, questi possono essersi richiusi su loro stessi. D’altronde, le molecole che si ottengono dal clonaggio non sono mai solamente quelle di interesse ma, anche in assenza di errori dell’operatore, la quantità di molecole volute che si ottengono non è altro che frutto di una probabilità statistica. L’unica precauzione che si può prendere è quella di inserire l’inserto in concentrazioni molto maggiori rispetto a quelle a cui si inserisce il plasmide, per evitarne una richiusura. Inoltre, non si garantisce che l’inserto si integri nel verso corretto: ulteriori analisi a posteriori sono necessarie alla valutazione di quali siano i putativi ricombinanti.
In ultima analisi, un sequenziamento del plasmide putativo ricombinante che si è identificato chiarisce ogni ulteriore dubbio circa la correttezza della sequenza di DNA clonato in esame. In alternativa, o in aggiunta, a un eventuale sequenziamento, sono molto utili le tecniche di ibridazione con sonde marcate fluorescenti o radioattive che permettono un’analisi di tutti i cloni per il riconoscimento dei putativi ricombinanti.
Metodi di valutazione dei trasformanti
Il processo di trasformazione viene indotto nelle cellule batteriche attraverso due tecniche differenti:
- l’elettroporazione, che sfrutta la sensibilità elettrica della parete cellulare batterica la quale, se sottoposta a campi elettrici dai voltaggi molto elevati per pochi secondi, tende ad aprire pori sulla sua superficie, utili al passaggio del plasmide che quindi traslerà all’interno del batterio;
- la trasformazione chimica, che sfrutta soluzioni chimiche adatte all’induzione del processo di trasformazione.
In ognuno di questi due casi, però, il plasmide che può entrare nella cellula batterica non è necessariamente un plasmide ricombinante: sarà necessaria una ulteriore analisi dei ricombinanti per stabilire quali batteri trasformanti hanno realmente ricevuto un plasmide che non fosse vuoto. Per valutare l’effettiva riuscita del processo di trasformazione esistono tecniche differenti: le tecniche di selezione su terreni contenenti antibiotico specifico per i vari ceppi batterici sono utili al solo riconoscimento dei trasformanti, altre, come l’alpha-complementazione, o selezione bianco-blu, e la selezione positiva, permettono già di identificare le più probabili colonie di putativi ricombinanti. La selezione su terreno contenente antibiotico è utile alla selezione dei soli trasformati e sfrutta una delle caratteristiche di base dei plasmidi che sono utilizzati a scopo di clonaggio: la presenza di una resistenza all’antibiotico, che, così come Ori e i diversi geni housekeeping, viene mantenuta integra. Se consideriamo un plasmide che porta una resistenza alla tetraciclina, ad esempio, per valutare la corretta riuscita della trasformazione si dovranno piastrare le cellule su terreno solido contenente tetraciclina: solo i batteri trasformanti, avendo acquisito la resistenza, potranno dare origine a colonie, mentre gli altri moriranno.
Tecniche di analisi dei ricombinanti
L’alpha-complementazione è una tecnica di selezione dei ricombinanti che sfrutta l’utilizzo di plasmidi ingegnerizzati in modo da possedere il gene LacZ per la sintesi della subunità alpha dell’enzima beta-galattosidasi, che fungerà da marcatore. Il batterio selezionato per il clonaggio, inoltre, non sarà wild type, bensì mutato di modo da poter produrre una sola subunità della beta-galattosidasi, la subunità omega. Il sito di clonaggio viene inserito sul gene LacZ di modo che solamente i batteri non-ricombinanti potranno produrre l’enzima, grazie ad una complementazione fra le due subunità prodotte a partire dal genoma centrale del batterio e dal suo plasmide, mentre a quelli non ricombinanti sarà impossibile poichè mancheranno della subunità alpha. Per differenziare fra i batteri ricombinanti e quelli non ricombinanti si prelevano le cellule dalla soluzione di terreno liquido iniziale e si piastrano su terreno solido contenente IPTG e X-Gal: la prima molecola è utile a stimolare la produzione di beta-galattosidasi nelle cellule, la seconda è una molecola ad azione colorante blu in presenza di beta-galattosidasi. Sarà quindi facile distinguere fra le colonie bianche, composte da batteri ricombinanti, e quelle blu, che conteranno batteri non ricombinanti.
In alternativa all’utilizzo dell’alpha-complementazione si può ricorrere alla selezione positiva. Il sistema a selezione positiva sfrutta un’inattivazione inserzionale per l’individuazione e la selezione dei ricombinanti. Uno dei plasmidi più usati è pCR-TRAP, che presenta resistenza all’ampicillina costantemente espressa e un gene che può fornire resistenza alla tetraciclina ma che risulta inattivato dalla presenza di un repressore. Il plasmide possiede anche un gene che codifica per il repressore C1 del fago lambda, la proteina che permette al fago di entrare in lisogenia, e il gene che conferisce resistenza alla tetraciclina cade sotto il suo stesso promotore. Previo clonaggio, i batteri mostreranno resistenza alla ampicillina ma non alla tetraciclina. Se invece effettuiamo clonaggio genico utilizzando come sito di ricombinazione il gene per C1, non avremo produzione di repressore per cui la resistenza alla tetraciclina verrà espressa e le colonie saranno resistenti all’antibiotico. Questo è dettato dal fatto che i geni per il repressore del fago e per la resistenza alla tetraciclina condividono la stessa sequenza promotrice in termini di paia-base ma cadono su due filamenti differenti e quindi corrono in direzioni opposte. Come avviene nel fago lambda, dove C1 è responsabile, oltre che della sua stessa co-attivazione, anche della repressione di svariati geni, C1 qui è responsabile della repressione del gene per la resistenza alla tetraciclina. In questo modo la selezione dei ricombinanti avverrà in una piastra contenente sia tetraciclina che ampicicllina: le uniche colonie che si formeranno saranno quelle dei putativi ricombinanti. Esistono, infine, plasmidi utili alla selezione positiva CloneSure che possiedono il sito di clonaggio in un gene codificante per una proteina tossica al batterio, che quindi ne causa la morte. In questo modo solo i batteri ricombinanti potranno produrre colonie.
Analisi della direzionalità dell’inserto mediante restrizione
Le tecniche di clonaggio possono essere direzionate o non direzionate: l’utilizzo di tecniche di clonaggio direzionato semplifica il riconoscimento dei putativi ricombinanti perchè permette l’inserimento del DNA esogeno da clonare seconda una direzione selezionata. Utilizzando un clonaggio direzionato, quindi, l’identificazione dei ricombinanti sarà sufficiente a comprendere presso quali cellule il clonaggio sarà avvenuto correttamente. Se si utilizza un clonaggio non-direzionato, invece, bisogna distinguere fra i ricombinanti ottenuti per selezionare quali sono quelli desiderati. Per questa analisi si devono scegliere uno o più enzimi di restrizione che taglino nel vettore e nell’inserto in maniera asimmetrica. A seconda della direzionalità dell’inserto, infatti, il risultato in elettroforesi sarà differente.
VETTORI FAGICI
Per quanto ci siamo soffermati più sull’utilizzo di plasmidi, il clonaggio genico è una tecnica di biologia molecolare che può facilmente fare ricorso a vettori differenti. L’utilizzo di vettori fagici sfrutta per lo più i fagi Lambda e M13, rispettivamente utili, peraltro, alla costruzione di librerie genomiche, e alla sintesi di DNA a singolo filamento. Le fasi di un clonaggio genico che sfrutta vettori fagici sono le stesse di quelle che si affrontano utilizzando vettori batterici, con alcune differenze. Bisogna, infatti, considerare che, seppur sarà necessario sfruttare una coltura batterica per la riproduzione fagica, i protagonisti di questo clonaggio saranno i fagi e non i batteri. In questo senso, il clone verrà estratto dalle teste fagiche che si andranno a raccogliere dalle placche che si formeranno sulle piastre Petri contenenti batteri e fagi, e non dalle cellule batteriche. Quindi è anche abbastanza intuitivo pensare che on sarà neppure necessario eseguire una serie di titolazioni mirate alla diluizione della sospensione cellulare da piastrare: la formazione di un tappeto di cellule batteriche sulla piastra renderà ancora più evidente l’azione litica dei fagi. Come per i plasmidi, anche nel caso di molti vettori fagici si sono sfruttati processi di ingegneria genetica per cercare di ottenere genomi fagici più utili agli scopi di laboratorio. Le differenze, quindi, non sono poi tante: bisogna però sempre tener presente che ciò che si sta cercando, nel caso di un clonaggio a vettore fagico, non è più nel corpo della cellula batterica, bensì nella testa fagica del virus, quindi bisognerà adattare le diverse fasi del clonaggio genico in questo senso.
Fonte
- Clonaggio di geni
Unipd