Il termine “terapia genica” richiama alla mente scenari fantascientifici relegati alla medicina del futuro, ma l’incessante ricerca scientifica ha reso questo approccio una realtà consolidata ed attuale. Come funziona questa tecnica? E quali sono i suoi rischi? Vediamolo insieme.
IN BREVE
Avreste mai pensato che il DNA, la molecola in cui è scritto il codice della vita, potesse avere un uso terapeutico? L’idea alla base della terapia genica è proprio quella di utilizzarlo come farmaco, veicolando il materiale genetico “curativo” nelle cellule del paziente. Il seme di quest’idea brillante è stato piantato decenni fa e si è sviluppato fino ad oggi, con sei diverse terapie geniche approvate tra Europa e Stati Uniti e più di 2500 studi clinici iniziati dal 1990 in poi. Un viaggio entusiasmante ma non privo di ostacoli e rallentamenti: partiamo.
Come funziona la terapia genica
Il bersaglio più immediato di questa terapia sono le malattie genetiche, perlopiù rare, causate da mutazioni che colpiscono un solo gene (e quindi definite monogeniche). In questo caso la strategia è quella di introdurre nel paziente una copia normale e funzionante del gene, e fare in modo che la proteina da esso codificata sia presente in modo stabile nel tempo. Quest’ultimo è un aspetto chiave perché idealmente, con un’unica somministrazione, si potrebbe curare un paziente per tutta la vita.
Esiste una grande varietà di “geni terapeutici”; oltre ai geni veri e propri si possono infatti utilizzare anche piccole sequenze di DNA o RNA che non codificano per proteine. Queste piccole sequenze di acido nucleico possono legarsi ad altre molecole presenti nella cellula ed interferire con la loro funzione. In questo caso quindi l’obiettivo non è quello di ripristinare la funzione di un gene malato ma di inibire la produzione o l’azione di una proteina patologica.
Qualunque sia il gene terapeutico prescelto, è necessario introdurlo in modo efficiente nelle cellule del paziente. Al momento il mezzo più efficace per superare le barriere naturali della cellula sono i vettori virali; questi sono virus resi innocui per l’organismo, che vengono impiegati come veri e propri “cavalli di Troia” in grado di introdurre il materiale genetico desiderato nella cellula. Ci sono poi altri metodi di trasferimento genico che non prevedono l’impiego di vettori virali; questi sono più economici e potenzialmente più sicuri, ma ad ora non altrettanto efficaci. La terapia genica può essere eseguita con due tipi di approccio: ex vivo o in vivo.
Terapia genica ex vivo
Questa strategia prevede che le cellule del paziente vengano prelevate, coltivate in laboratorio, caricate del gene terapeutico ed infine trapiantate nello stesso individuo. In questo modo si dota il paziente di una riserva potenzialmente inesauribile di cellule portanti il gene corretto, che per tutta la vita produrranno la proteina mancante. Per questa terapia si utilizzano lentivirus, un particolare tipo di virus che si integra nel DNA delle cellule bersaglio e permette così di trasmettere il DNA terapeutico anche a tutte le cellule che deriveranno da quelle trapiantate. Il lentivirus da cui sono stati generati la maggior parte dei vettori virali è stato HIV-1. La conoscenza profonda della sua biologia ha permesso di generarne delle versioni che si “auto-inattivano”: in questo modo dopo avere infettato le cellule e veicolato il gene terapeutico, il virus non è in grado di replicarsi.
La terapia genica ex vivo più consolidata si basa sull’utilizzo delle cellule staminali ematopoietiche (precursori delle cellule del sangue). È grazie a questo metodo che sono stati ottenuti i primi incoraggianti risultati con la terapia genica, che ha permesso di trattare gravissime immuno-deficienze; per queste malattie l’unica alternativa possibile sarebbe un trapianto di midollo osseo (solamente quando esiste il donatore compatibile, e con il rischio di rigetto). Non solo, la modificazione genetica di cellule ex vivo permette anche di realizzare nuove potenti armi da utilizzare contro il cancro. È la tecnica CAR-T, mediante la quale si possono programmare i linfociti T del paziente perché riconoscano ed attacchino in modo specifico le cellule tumorali. Diversi studi clinici hanno dimostrato l’efficacia di questa strategia per il trattamento di linfomi, leucemie e mieloma multiplo e due terapie basate su CAR-T sono state approvate nel 2017 negli Stati Uniti.
Il vantaggio fondamentale di questo tipo di terapia genica è la ridotta probabilità di scatenare una risposta immunitaria. Inoltre, negli ultimi anni si è allargato lo spettro dei tipi di cellule che possono essere trattati con questa metodica; questo ha permesso di testare questa terapia anche su altre patologie, come il morbo di Parkinson o l’infarto del miocardio. Il limite principale dell’approccio ex vivo è che la procedura è potenzialmente laboriosa e costosa, perché va naturalmente personalizzata per ogni paziente.
Terapia genica in vivo
E se per alcune malattie non fosse possibile prelevare le cellule del paziente per caricarle col gene terapeutico in laboratorio? Se non è possibile portare le cellule dal virus, si spedisce il virus dalle cellule nella loro residenza naturale. È il caso dell’approccio in vivo, in cui si utilizzano principalmente vettori basati su virus adeno-associati (AAV), indirizzati nell’organismo verso il tessuto di interesse. Questi virus, a differenza dei lentivirus, non si integrano nel DNA delle cellule del paziente; possono comunque permettere la persistenza a lungo termine del gene terapeutico perché sono in grado di trasdurre cellule a lunga sopravvivenza che non si dividono più (ad esempio neuroni o fibre muscolari).
Questo approccio è più semplice della terapia genica ex vivo e può essere applicato, in linea generale, ad un gran numero di pazienti con la stessa patologia. Ci sono tuttavia alcuni potenziali problemi di cui tener conto, come la possibile inattivazione del virus in vivo da parte di anticorpi neutralizzanti o l’induzione di una risposta immunitaria. Modificando il capside, ovvero l’involucro più esterno del virus, è stato però possibile ottenere vettori più sicuri ed efficienti. Iniettando il vettore virale nell’organismo, è poi necessario indirizzarlo in modo specifico al tessuto da bersagliare, evitando l’espressione del gene terapeutico in altri distretti. Per fare ciò si utilizzano sierotipi di AAV che infettano in modo preferenziale le cellule di interesse; inoltre si può corredare il gene terapeutico di sequenze di controllo che permettono la sua espressione in modo preciso e localizzato.
La terapia genica in vivo ha permesso di trattare alcune malattie genetiche dell’occhio, come le distrofie della retina, prima incurabili. Non solo, si sono fatti passi da gigante anche nel trattamento dell’emofilia, una rara patologia del sangue causata dalla mancanza di una singola proteina della coagulazione e che porta a sanguinamenti spontanei anche molto gravi. Diversi studi hanno permesso negli ultimi anni di migliorare progressivamente le caratteristiche del vettore adeno-associato e del gene terapeutico; alcuni pazienti, a seguito di un’unica iniezione, mostrano ancora a distanza di anni livelli di proteina sufficienti a garantire la totale assenza di sanguinamenti.
Trasferimento genico non virale
Oltre ai vettori virali, esistono altre metodiche di trasferimento genico, finora testate principalmente in vitro e in modelli animali. Questi metodi possono essere di natura fisica oppure chimica.
I metodi fisici cercano di potenziare l’ingresso del DNA nella cellula modificandone la membrana attraverso forze fisiche come elettricità o pressione. Nell’elettroporazione, ad esempio, si applicano degli impulsi elettrici che rendono la membrana permeabile in modo transitorio e permettono quindi l’ingresso del DNA dall’esterno. Non solo, anche gli ultrasuoni sono in grado, in certe condizioni, di creare dei micropori nella membrana, aprendo al DNA le porte della cellula. Nel gene gun, invece, si usano delle vere e proprio pistole in grado di sparare nella cellula particelle di oro o tungsteno ricoperte col DNA da trasferire.
I metodi chimici mirano invece a cambiare le proprietà del DNA attraverso il legame con molecole in grado di mascherare le sue cariche negative; queste sono infatti responsabili della repulsione che il DNA ha verso la membrana cellulare. Il trucco è quello di utilizzare delle molecole cariche positivamente, principalmente liposomi o polimeri cationici. I primi sono delle vescicole sferiche formate da lipidi, che possono fondersi con la membrana e rilasciare il proprio contenuto all’interno della cellula; i secondi, invece, sono delle catene lineari o ramificate di molecole cariche positivamente, come ad esempio l’aminoacido lisina.
Rispetto ai vettori virali, questi metodi sono tendenzialmente più sicuri, economici e semplici da maneggiare; purtroppo, però, la loro efficienza rimane insoddisfacente. Uno dei limiti principali è che la maggior parte del DNA che entra nella cellula tramite questi sistemi rimane intrappolato negli endosomi (delle vescicole all’interno della cellula) e viene successivamente degradato. Inoltre, non essendo in grado di integrarsi nel genoma delle cellule, il DNA introdotto viene progressivamente perso nel tempo, vanificando l’espressione a lungo termine della proteina terapeutica. Per tutti questi motivi i vettori virali sono ancora nettamente il sistema preferito usato nelle sperimentazioni cliniche di terapia genica.
Limiti e prospettive
Il percorso della terapia genica non è stato privo di ostacoli e rallentamenti. Agli inizi degli studi clinici si sono verificati effetti collaterali gravi dovuti principalmente a due ragioni: (1) le mutazioni indesiderate causate dall’integrazione dei virus nel DNA delle cellule dei pazienti; (2) la violenta risposta del sistema immunitario contro i vettori virali iniettati nell’organismo, che negli anni ’90 causò anche la morte di un paziente. Questi iniziali eventi avversi diedero una brusca frenata agli studi clinici; allo stesso tempo, però, spronarono fortemente la ricerca verso nuovi tipi di vettori virali modificati, più sicuri ma altrettanto efficaci. Ad oggi le terapie sono notevolmente più sicure e gli studi clinici stanno mostrando risultati incoraggianti, da verificare naturalmente sul lungo termine nei prossimi anni.
Al momento la terapia genica è un trattamento estremamente costoso, il cui costo oscilla tra i 100.000 e il milione di dollari per ogni paziente. I costi di un’azienda farmaceutica che voglia investire sulla terapia genica sono molto alti perché si tratta di una terapia da personalizzare per ogni paziente, che va seguito per anni e a cui in certi casi è garantito il rimborso se la terapia non va a buon fine. Tuttavia questo campo è in rapidissimo progresso ed espansione e le metodiche impiegate stanno evolvendo altrettanto velocemente; questo porterà sul lungo termine ad una riduzione dei costi delle terapie, rendendole più appetibili ad investimenti e più accessibili ai pazienti.
La terapia genica sta quindi sempre più concretamente fornendo possibilità di cura a malattie genetiche rare altrimenti non trattabili, e molte altre patologie potranno in futuro beneficiare delle sue applicazioni. Con le nuove opportunità fornite dall’editing genetico, inoltre, si potrà ulteriormente ampliare l’arsenale di strategie a disposizione dei ricercatori. Insomma, la medicina del futuro è ormai sempre più quella del presente.
Fonte
- Entering the modern era of gene therapy
Annual Review of Medicine
- Terapia genica
Mauro Giacca