Il bisogno di chiusura cognitiva è uno tra i meccanismi psicologici che spingono all’omogeneità intra-gruppo e all’esclusione di chi la pensa diversamente rispetto alla massa. Alcuni autori l’hanno utilizzato per spiegare gli estremismi, altri per raccontarci i motivi per i quali a volte ci sembra di non essere capiti. Vedremo nei prossimi paragrafi su quale base funziona e cercheremo di trovare una scappatoia.
IN BREVE
Indice
IL BISOGNO DI CHIUSURA COGNITIVA COME FRUTTO DI UN PROCESSO
Theodor W. Adorno, in Germania, dopo le vicende naziste, da sociologo si chiese come mai alcune persone fossero disposte ad obbedire ciecamente agli ordini pur essendo questi spesso non socialmente accettati, né piacevoli da compiere. Tuttavia la vera domanda è «non socialmente accettati da chi?». «Socialmente» implica che ci sia una società disposta ad ascoltare e giudicare tali ordini, eppure se le azioni antisemite agli occhi della nostra attuale società sembrano disumane, non vuol dire che lo sembrassero anche alla società tedesca nazista dell’epoca. Al contrario, in linea con la teoria della gestione del terrore, è facile che i militari eseguissero i comandi proprio perché li ritenessero «pro-sociali», ovvero a favore dell’ideale comune della loro società. «Befehl ist befehl» avrebbe detto il soldato tedesco ai comandi del Führer, ma come mai ci sono persone più portate ad eseguire gli ordini ed altre più resistenti? Come mai ci sono individui più sottomessi ed altri più dominanti? Celebre è la frase del duo Eurythmics nella canzone Sweet Dreams (Are Made of This): «Some of them want to abuse you. Some of them want to be abused», ma domandiamoci ancora una volta perché le cose stanno così. Evidentemente per alcuni soggetti è più semplice sottomettersi agli ordini, cerchiamo di capire il processo che c’è dietro la semplice etichetta «sottomessi».
L’autoritarismo
Adorno, per rispondere a queste domande, sviluppò in primo luogo la cosiddetta F scale (dove la F sta per «Fascismo») che misurava la tendenza all’autoritarismo secondo un ragionamento puramente categorizzante, senza ancora spiegare il processo dietro la categoria «fascista». Introdusse poi il concetto della cosiddetta «personalità autoritaria», la cui origine era radicata nell’idea psicoanalitica secondo cui il Super-io tra le tre istanze è sicuramente la più normativa. Rifacendosi alla logica psicoanalitica, la personalità autoritaria si sviluppava a partire dalle dinamiche tra bambino e genitori, in particolare tra bambino e padre. Quando il bambino voleva aggredire il padre ma non poteva farlo, trasformava il desiderio di aggressione in compiacenza. In quest’ottica, allo stesso modo, la persona che si sottomette all’autorità, lo fa perché non può aggredirla, seguendo il principio di identificazione con l’aggressore. Il bambino che vuole mantenere l’amore del padre, non si oppone ed anzi finisce per amare ciò che gli viene ordinato, non potendolo contestare. Le alternative sono due: o si contesta ciò che dice l’autorità ma al tempo stesso si rischia di perdere il suo agognato amore, o ci si adatta e la si compiace ma si è certi di continuare a beneficiare del suo affetto. In questi termini la tendenza alla sottomissione appare quindi come un segnale di allarme traducibile in «ho la necessità di essere accettato» oppure «ho paura di essere allontanato da chi mi accetta», che sia questo il padre, il Führer o un gruppo di persone accomunate da uno stesso ideale. Se tale ideale non è condiviso anche dalla persona che ha paura di essere esclusa, il rischio è che questa inizi a condividerlo «a forza», non genuinamente, ma per una necessità personale dettata dal timore dell’abbandono. Si sottolinea inoltre che, in linea con la teoria della dissonanza cognitiva, l’ideale sarà ancor più intenso nella persona che non lo condivideva ma che ha imparato ad accettarlo, perché si creerà in lei uno stato di «chiusura cognitiva» tale che la porterà a vedere solo la nuova cognizione. Tutte le altre che facevano resistenza al nuovo ideale verranno accantonate e perderanno potenza, perché se non lo facessero e se non venissero messe da parte, continuerebbero solo a creare conflitto, e quindi malessere nel soggetto. Va da sé che un soldato in quest’ottica sarà estremamente convinto delle sue azioni ed eseguirà con piacere gli ordini per diversi motivi che si potenzieranno a vicenda: 1. La necessità di affetto, in termini semplicistici, o meglio la paura del rifiuto, lo porterà sottomettersi al proprio comandante; 2. La necessità di accettazione, di nuovo la paura del rifiuto, lo porterà a compiere azioni «pro-sociali», ovvero «in favore della società» (la società nazista in questo caso, con i suoi ideali); 3. La condizione di dissonanza cognitiva, sommata ai precedenti bisogni, lo renderà sempre più chiuso e meno propenso a valutare delle alternative comportamentali, perché se effettivamente ci fossero delle alternative, sarebbero solo fonte di dolore, dal momento che entrerebbero in conflitto con i suoi comportamenti attuali.
Come non conformarsi?
A questo punto ci si potrebbe domandare come fare per non conformarsi con l’autorità, che sia questa il padre o il Führer, per evitare che si inneschi questa dannosa catena di eventi. Se il problema sono le cognizioni e la necessità di amore del soggetto, allora si potrebbe pensare di intervenire su questi fattori oppure lo si potrebbe aiutare a trovare altre fonti di affetto. Ovviamente un discorso di questo tipo sarebbe molto più semplice da affrontare in uno studio psicoterapeutico piuttosto che nella società nazista, dal momento che si potrebbe spiegare ad un bambino che maggiore è la distanza tra due persone (lui e il padre ad esempio), minori sono il senso di attrazione, il senso di rimorso e quello di attaccamento, così come in fisica maggiore è la distanza tra due corpi, minore è la loro attrazione. In questo modo, con la lontananza, si smorzerebbe il potere del genitore sul figlio.
La situazione è ben più complessa di quello che sembra, ma questo breve racconto clinico ci serva da esempio per comprendere che, una volta compresa la strada che porta ad un comportamento, si può trovare una scappatoia per evitare di arrivare fino alla manifestazione di quell’atteggiamento. Altri interventi potrebbero essere fatti sullo stile educativo del padre o più in larga scala, sui valori della società, ma per trattare a fondo questo argomento sarebbe necessario scrivere un libro, vista la molteplicità di variabili coinvolte nel processo di sviluppo. Ciò che ora ci serve comprendere è che alcuni atteggiamenti non sono innati, per quanto possa esserci predisposizione biologica in un individuo, ma vengono appresi sulla base di conclusioni alle quali si arriva in seguito ad un processo come quello descritto nel paragrafo precedente.
Come si diventa autoritari
È bene sottolineare innanzitutto che «autoritarismo» e «autorevolezza» non sono la stessa cosa. Mentre il primo è uno stile (solitamente educativo) che nella maggior parte dei casi porta ad esiti negativi, il secondo è probabilmente l’atteggiamento migliore che si possa avere nei confronti dei propri figli o dei propri sottoposti. Dal punto di vista evolutivo, colui che sviluppa un modo di fare «autoritario», quindi direttivo, intransigente e non aperto al confronto (tutte caratteristiche che vedremo essere rappresentative del bisogno di chiusura cognitiva), prima che sia autoritario con gli altri, deve sottostare a subire la «violenza» da parte del genitore, non per forza fisica, ma anche psicologica (il silenzio come punizione ad esempio). Per questo motivo, la stessa persona autoritaria, al cospetto di un suo capo, diventa rispettosa ed ossequiosa. Se Hitler si fosse confrontato con una persona di grado più alto rispetto al suo, probabilmente al suo cospetto sarebbe stato docile come un bimbo. L’autoritario è dunque capace di sottomettersi e di sottomettere, in relazione al proprio ruolo, non potrebbe esserci un autoritario che sottomette l’inferiore ma non si sottomette al superiore. Per poter esercitare il suo autoritarismo, deve a sua volta legittimare questo sistema, che altrimenti crollerebbe, dopotutto stiamo parlando di una persona ad alto bisogno di chiusura cognitiva, che è coerente per definizione, perché se non lo fosse entrerebbe in conflitto con sé stessa per quanto detto prima. L’autoritario che sfida questo sistema lo fa saltare, ed a sua volta viene sfidato. Tuttavia, sia ben chiaro che non ci sono «l’autoritario» in senso assoluto e il «non autoritario», ciascuno è un po’ autoritario, chi più chi meno, in funzione della propria predisposizione, delle proprie esperienze di vita e delle proprie cognizioni. Il processo dietro al fenomeno, a differenza delle semplici categorie («non autoritario» e «autoritario») che sono appunto «categoriche», spiega e differenzia il fenomeno stesso in funzione della situazione. Le relazioni tra le variabili da cui dipende un comportamento restano effettivamente costanti solo in condizioni uguali. Al cambiare delle condizioni, all’introduzione di nuove variabili, anche le relazioni cambiano, e quindi cambia la manifestazione comportamentale. Per questo motivo non tutte le persone che hanno subito autoritarismo diventano a loro volta autoritarie, perché in loro evidentemente ci sono delle variabili che interagiscono in maniera diversa, in funzione del contesto, rispetto a quelle che interagiscono in una persona che invece sviluppa l’autoritarismo. Secondo Kurt Lewin infatti il comportamento è funzione dell’ambiente interno ed esterno della persona, al variare delle condizioni interne o esterne, cambia il comportamento stesso.
Perché si parla di «bisogno» di chiusura cognitiva?
Ci si potrebbe dunque chiedere se l’autoritarismo è una caratteristica esclusiva della destra politica. Che ne è di Stalin? Milton Rokeach, in The Open and Closed Mind, estende il ragionamento: non si tratta semplicemente di politica, ma di estremismo in senso lato. Le persone che portano certi pensieri agli estremi, a differenza delle persone che non li raggiungono, hanno una modalità comportamentale caratterizzata da chiusura mentale. Quando la mentalità estrema si cristallizza allora si può parlare closed mind; qualsiasi individuo che esaspera il proprio pensiero è rappresentativo di un bisogno di chiusura cognitiva, ma perché si parla di «bisogno»? Abbiamo visto nei paragrafi precedenti che le persone arrivano a chiudersi nei propri ideali non tanto per spontaneità, quanto piuttosto per necessità, per questo motivo si parla di bisogno di chiusura cognitiva (Kruglanski, 2009). Chi è mentalmente chiuso non è nato così, ma lo è diventato in seguito ad un processo di sviluppo incentrato sulla necessità e sulla paura; difatti spesso le due cose vanno a braccetto, basti pensare, banalizzando, alla necessità di mangiare per paura di morire di fame.
Bisogno di chiusura cognitiva: definizione
Bisogno di chiusura cognitiva, cos’è e come siamo arrivati alla sua definizione? Fu Arie Kruglanski a sviluppare la scala need for cognitive closure; scrisse un articolo in cui si parlava del bisogno di chiusura cognitiva (NFC) ed affermò che ad uno score elevato nella scala corrispondeva un alto bisogno di chiusura cognitiva, in termini categorici. Successivamente si notò che le varianti situazionali avevano un notevole impatto sui punteggi NFC e si iniziò a pensare che il bisogno di chiusura cognitiva fosse in realtà frutto di un processo di interazione tra fattori e non una semplice caratteristica statica dell’individuo. Ad esempio il fracasso induceva i soggetti sperimentali ad essere più chiusi mentalmente e più bisognosi di chiusura. La scala ideata da Kruglanski coglieva e si basava su due tendenze: il seazing («afferramento») ed il freezing («congelamento»). L’idea era che non ci fosse solo il bisogno di chiusura cognitiva in senso assoluto, ma che ci fossero due tendenze specifiche all’interno di questo bisogno: l’afferramento di emozioni o cognizioni, che creerebbe l’idea/aspettativa sulla persona e/o situazione analizzata, ed il successivo congelamento di ciò che si ha afferrato. Tanto più una convinzione è congelata, tanto più sarà difficile scongelarla. Generalmente ad un alto grado di chiusura cognitiva corrispondono un alto freezing ed un’alta velocità nell’acchiappare i dati necessari alla creazione dell’idea/aspettativa. Per questo motivo, in caso di elevato bisogno di chiusura cognitiva, è più facile che il soggetto tenda a confermare acriticamente le proprie credenze (confirmation bias). Ad esempio, durante l’interazione, se una persona ad alto NFC crede che il suo interlocutore voglia attaccarla con i suoi ideali nel tentativo di persuaderla, per proteggersi continuerà a dare credito a questa sua credenza e tenderà a chiudersi ancora di più nel suo ideale assolutistico. A questo proposito Kruglanski parlò di «bisogno epistemico», ovvero il «bisogno di conoscenza», dunque la necessità di raccogliere informazioni al fine di giungere alla conclusione corretta. Una persona rimane mentalmente aperta fino a quando l’apertura è funzionale al raccoglimento delle informazioni utili per trarre la conclusione corretta (da qui deriva il seazing della scala NFC, inteso come «afferrare le informazioni»); quando raggiunge la conclusione desiderata, si chiude, ferma nella sua posizione. Più tenderà a non smuoversi (freezing), più difficilmente cambierà idea, più i suoi punteggi in NFC saranno alti. In quest’ottica un’autorità epistemica è colui che ha il potere e la capacità di influenzare gli altri all’interno di un gruppo o contesto sociale, perché presumibilmente ha conoscenze superiori. Intuitivamente, se l’autorità fornisce le informazioni ricercate dagli altri, viene osannato; se ostacola il confronto ed il raggiungimento degli obiettivi comuni, diventa scomodo. Per questa ragione, secondo l’ottica utilitaristica di Orehek, nelle relazioni di coppia si tende a preferire il partner in grado di favorire il raggiungimento del maggior numero di obiettivi personali, e lo si cambia quando si oppone al raggiungimento dei propri scopi, che siano questi di tipo affettivo (la sicurezza personale), di tipo lavorativo o altro (Orehek, 2018). La società nazista era così coesa perché unita da un’ideale comune e guidata da un leader che lo valorizzava e lo potenziava. In questo modo il popolo era soddisfatto dal proprio comandante, lo ascoltava, e quindi lui a sua volta era soddisfatto dai propri sottoposti. Si creava così un circolo vizioso di auto-potenziamento.
IL BISOGNO DI CHIUSURA COGNITIVA NEI GRUPPI SOCIALI
Fino ad ora abbiamo parlato di nazismo, quindi di gruppi e di ideali. È risaputo che il comportamento umano varia dalla solitudine alla compagnia, intese in senso psicologico, non puramente fisico. Ci si può sentire soli pur essendo fisicamente parte di un gruppo, così come ci si può sentire parte di un gruppo pur essendo fisicamente soli. Il gruppo diventa presente psicologicamente in determinate situazioni, e quando ciò accade cambiano i comportamenti individuali sia verso sé stessi che verso gli altri. Un caso esemplare è quello dell’esperimento sulla pressione sociale condotto da Asch nel 1951: stimando la lunghezza di alcune linee, la valutazione cambia quando il proprio giudizio non coincide con quello degli altri e si è portati a conformarsi con quello che dicono gli altri, anche se è sbagliato. Questo meccanismo in un certo senso spiega anche come mai all’interno del gruppo nazista si sia creata una tale omogeneità e coesione.
In alternativa al classico esperimento di Asch, si immagini di dover stimare la lunghezza di alcune linee che crescono in maniera progressiva. In media le prime tre sono più corte delle altre tre, ma assegnando le prime 3 al gruppo A, e le altre 3 al gruppo B, le prime sembreranno in media ancor più corte rispetto alle altre. Si crea una categorizzazione tra le corte (A) e le lunghe (B) e il dato in entrambi i casi finisce per sbilanciarsi verso la caratteristica riconosciuta (corto, lungo). Le corte sembreranno più corte e le lunghe più lunghe: il divario cresce. Tutto ciò accade perché il sistema percettivo funziona sulla base della presenza/assenza di categorizzazione. All’interno del gruppo («le corte» o «le lunghe») si tende ad omogeneizzare le caratteristiche di quel gruppo, facendo diminuire le differenze tra le componenti, come se ci fosse un’amplificazione della somiglianza intra-classe. Al contrario si tende ad accentuare le differenze interclasse.
Per lo stesso motivo la distanza psicologica tra il 30 e il 31 marzo è minore rispetto alla stessa distanza tra il 31 marzo ed il 1 aprile; Il numero delle ore è identico, ma intra-mese sembra che lo spazio psicologico sia minore. Cinque giorni a cavallo tra due mesi corrispondono ad un periodo psicologico più lungo rispetto a cinque giorni all’interno di uno stesso mese. Questo perché, vedendo i mesi come gruppi, al loro interno vi è omogeneità, mentre tra l’uno e l’altro si crea una notevole differenza psicologica, che fa sembrare il salto da un mese all’altro molto più lungo. Difatti le categorie spezzano la continuità, aumentano le distanze tra gruppi e le diminuiscono inter-gruppo.
Il processo di categorizzazione porta ad una maggiore chiusura
Tajfel, padre della teoria dell’identità sociale, domandò a diversi cittadini britannici quanto pesasse una sterlina e quale fosse il suo diametro. Portò successivamente la moneta in un luogo della Terra dove questa aveva alcun significato e ripeté l’esperimento. Notò che in Inghilterra la sterlina veniva percepita come più grande e più pesante rispetto alle sue reali caratteristiche, e per assicurarsi che l’errore di valutazione non dipendesse dall’ignoranza delle altre popolazioni utilizzate come confronto, propose una moneta straniera ai londinesi per avere la prova del nove. I risultati furono identici ma speculari. Questo fenomeno accadeva perché l’appartenenza ad un gruppo tendeva ad accentuare le caratteristiche degli elementi appartenenti a quel gruppo. Il processo di categorizzazione infatti porta ad una maggiore chiusura cognitiva e ad una maggiore rigidità. Coloro che rientrano in un gruppo tenderanno a dare credito a sé stessi e a screditare gli altri, in funzione del bisogno di chiusura cognitiva che li porterà a confermare il valore del proprio gruppo anche attraverso una svalutazione degli altri. Di seguito si riassumono gli effetti automatici del processo di categorizzazione e del bisogno di chiusura cognitiva:
- Accentuazione delle differenze inter-gruppo;
- Diminuzione delle differenze intra-gruppo;
- Ingroup bias: tendenza a favorire il proprio gruppo di appartenenza attribuendogli nuovi tratti positivi e amplificando la valenza dei tratti positivi già esistenti;
- Outgroup discrmination: tendenza a discriminare i gruppi esterni.
Il bisogno di chiusura cognitiva come strategia politica
Mentre valorizzare il proprio gruppo generalmente è un atteggiamento socialmente accettato, discriminare gli altri fa crollare la desiderabilità sociale del gruppo discriminante. D’altra parte, il fatto di creare un gruppo avversario, il polo di contrasto, aumenta la coesione all’interno del gruppo che lo crea. Tutti questi meccanismi, giocando sul bisogno di chiusura cognitiva delle persone e sulla loro necessità di certezze, possono essere utilizzati, ad esempio, come strategia politica.
- Creare un nemico (ad esempio gli ebrei) porta anche alla creazione automatica di due poli (gli ebrei e i nazisti). Nella massa si crea così tensione tra l’uno e l’altro e per questo motivo si genera una forte ansia;
- Attribuirgli caratteristiche negative va ad accentuarne la negatività (gli ebrei sono pericolosi) e quindi va ad incrementare anche l’ansia della popolazione;
- A questo punto è sufficiente proporre una soluzione valida alla situazione (eliminare gli ebrei) per ottenere la completa attenzione della popolazione con altissimo bisogno di chiusura cognitiva, generato dalla forte ansia creatasi fino a questo momento. La massa in ansia cerca sempre la sapienza dell’autorità epistemica, e di conseguenza si identifica con il gruppo al quale tale autorità appartiene. Una volta che la popolazione ha scelto da che parte stare (seazing), difficilmente cambierà la propria idea (freezing), soprattutto se il proprio gruppo continuerà a dargli le certezze di cui ha bisogno.
PERCHÉ ACCADE? LA TEORIA DELLE PROSPETTIVE MULTIPLE
Ipotizziamo di avere un segmento. Ai suoi estremi troviamo a sinistra uno stato mentale di orienting, a destra una condizione opposta detta di multiple perspective. Così come la bussola segna il nord, orienting, inteso come stato psicologico dove regna l’idea che ci sia una e una sola risposta corretta, segna tale risposta univoca, quella che viene servita su un piatto di argento dall’autorità epistemica che desidera supporto politico. La condizione di multiple perspective al contrario lascia al soggetto la possibilità di considerare e di valutare differenti punti di vista, senza obbligarlo a trovare una risposta assoluta. Ammette la convivenza di cognizioni differenti, e per questo motivo è anche lo stato mentale che più contrasta la condizione di dissonanza cognitiva, perché non crea contrasto tra due ideali, entrambi sono altrettanto validi per il soggetto. Se in prossimità di multiple perspective ci si avvicina all’apertura mentale, se così possiamo chiamarla, in prossimità del polo sinistro ci si avvicina alla chiusura, nonostante le due cose non coincidano completamente. L’orientamento è più che una semplice chiusura; segue il modello della tension reduction che vede una caduta della tensione motivazionale subito dopo il suo accumulo fino al raggiungimento di un picco, come nel caso dell’orgasmo. La tensione motivazionale è data dal diverso, e tende ad essere riportata alla norma attraverso la ricerca di cognizioni consonanti con la propria o con la svalutazione di quelle dissonanti. In altre parole tramite la ricerca del conformismo, della costanza e dell’omogeneità, in linea con quanto detto nei paragrafi precedenti.
Il sistema tende ad un polo piuttosto che all’altro sulla base di forze contrastanti. Il soggetto nella posizione in figura si trova proprio lì perché è quello il punto risultante dall’incontro delle due forze opposte. In situazioni di minaccia e di incertezza si è portati a tendere verso orienting che esclude le valutazioni e cerca LA risposta rapida, unica e univoca. In situazioni di conflitto sopravvive solo ciò che è stato raccolto dal soggetto durante la fase di seazing. Più è ampio il repertorio prospettico del soggetto, minore è l’ansia provocata dalle minacce, migliore e meno esclusiva è la risposta data ad esse. Va da sé che un soggetto predisposto all’apertura mentale, a differenza di un soggetto predisposto alla chiusura cognitiva, sarà più facilmente disponibile ad accogliere prospettive differenti e di conseguenza a tollerare anche quelle nuove che gli si presentano. In linea con la teoria della gestione del terrore, bassa autostima + minaccia = chiusura cognitiva e orienting. Questo spiega perché nel narcisismo maligno, dove l’autostima è altamente corrotta, si verificano molti fenomeni di affiliazione e molte delle dinamiche descritte fino ad ora. Il gruppo protegge questi individui dalla loro bassa autostima, li valida, li accetta e li aiuta a brillare di luce riflessa. Se il gruppo brilla, anche i suoi membri brillano.
Gli effetti della chiusura cognitiva sull’empatia
«Empatia» ha una connotazione prevalentemente positiva è desiderabile. Jeremy Rifkin, in The Empathic Civilization, lascia intendere che presto o tardi arriverà il momento in cui la connessione tra umani sarà tale da condurli ad una sorta di età d’oro in cui ciascuno «empatizzerà» con gli altri e collaborerà con loro per migliorare la qualità di vita propria e altrui. Tuttavia la modernità per il momento ha portato solo una più netta divisione tra classi e possiamo solo sperare che il futuro descritto da Rifkin prima o poi si concretizzi nelle città del futuro come può essere ad esempio Neom, una megalopoli dalle grandi ambizioni non solo urbanistiche, ma anche sociali. Suonando la corda di un qualsiasi strumento acustico, si fa automaticamente risonare e vibrare la corda corrispondente su uno stesso strumento posto altrove nella stanza. È proprio questa la definizione di empatia, intesa in senso letterale come «condivisione del pathos». Per definizione essa comprende una fase di empathic perspective taking, che coincide con la capacità di assumere il punto di vista altrui. Può essere tradotta con «capacità di decentramento», quella che, ad esempio, manca nei bambini, che faticano a comprendere una prospettiva diversa dalla propria, si pensi al cosiddetto «esperimento delle tre montagne». È particolarmente presente nei soggetti in condizione di multiple perspective, e intuitivamente manca nei soggetti in orienting. Si tratta di un’abilità che si apprende durante lo sviluppo, ma che può regredire e ridursi in caso di minaccia. Ogni arousal sufficientemente forte (soggettivamente), ritrasforma qualsiasi adulto evoluto, anche il più empatico di tutti, in un bambino egocentrico, e in altre parole, riporta all’orienting a causa del bisogno di chiusura cognitiva che genera. Per questa ragione, per un soggetto che si sente in qualche modo aggredito o minacciato, sarà molto più difficile comprendere le prospettive e le motivazioni altrui. Infatti, quando si vuole fare una proposta, è sempre meglio presentarla in condizioni ottimali di tranquillità e comprensione, pena il rifiuto da parte di chi la ascolta.
Fonte
- The need for cognitive closure. Handbook of individual differences in social behavior, 343-353.
Kruglanski, A. W. & Fishman, S. (2009) - Kruglanski, A. W., Pierro, A., Mannetti, L., & De Grada, E. (2006). Groups as epistemic providers: need for closure and the unfolding of group-centrism.
APA PsycNet - Altruismo e comportamento prosociale: Temi e prospettive a confronto. FrancoAngeli.
Boca S. & Scaffidi Abbate C. (2011) - Orehek, E., Forest, A. L., & Barbaro, N. (2018). A people-as-means approach to interpersonal relationships.
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