Vi capita spesso di arrossire? E di vergognarvi per questo? Accade continuamente alle persone che soffrono di ereutofobia. Un sintomo, più che un disturbo, che causa malessere nei luoghi pubblici, a causa del potenziale giudizio degli altri. In questo articolo vedremo quali sono i meccanismi alla base di una simile paura, i pensieri negativi che non aiutano a risolvere il problema e le domande che possono far luce sulla sofferenza di un paziente.
IN BREVE
Indice
EREUTOFOBIA, VERGOGNA DELLA VERGOGNA
Ereutofobia, ovvero paura di arrossire. Arrossire in volto è la reazione tipica che tutti abbiamo quando riteniamo di aver fatto una pessima figura, ed è chiaramente un segno di vergogna e imbarazzo. Un segno che possiamo riscontare spesso in chi è timido o molto introverso. Alcuni, tuttavia, non riescono a sperimentare questo in maniera normale e passiva. In altre parole, sono molto attenti alle loro risposte fisiologiche, e immediatamente si rendono conto dell’arrossarsi del volto. Perché questa paura? Sebbene i motivi possano essere diversi, è frequente che l’ereutofobia compaia nelle persone che temono di fare una figuraccia – molto spesso nei luoghi pubblici – e di essere per questo umiliate. Si potrebbe definire come vergogna della vergogna: l’idea è che se gli altri vedono una reazione come quella dell’arrossamento del volto, non potranno far altro che giudicare e deridere ulteriormente. Tutti noi abbiamo il genuino desiderio di essere accettati, di essere per un momento al centro dell’attenzione, ma alcuni pensieri possono far sì che questo diventi particolarmente difficile. O meglio, alcuni pensieri possono spingerci a sentirci giudicati e ad un passo dall’umiliazione.

Cosa penseranno gli altri? Il caso del paziente ansioso
Si suppone che il senso evolutivo dell’arrossire consista nel cercare compassione e aiuto negli altri, soprattutto dopo aver fatto un errore. L’emozione associata è la vergogna, che è la valutazione di un fallimento personale rispetto agli standard sociali. Per capire meglio cos’è l’ereutofobia familiarizziamo con un tipo di paziente ansioso in cui queste sensazioni sono molto frequenti, ovvero il paziente con ansia sociale. L’ansia sociale impedisce ad alcune persone di impegnarsi in certe attività, come parlare in pubblico. La sofferenza è causata dalla paura di rendersi ridicolo di fronte a tutti; se fa qualcosa, come mangiare un panino, prova una forte vergogna e, naturalmente, arrossisce. In questo momento compare una domanda: “Cosa penseranno di me?”. Se qualcuno notasse il suo disagio sarebbe terribile, perché tutti capirebbero quanto è strano. “Strano“, un termine generico che sostituisce molte qualità negative che il paziente ansioso può attribuirsi: diverso, anormale, inferiore, debole. Come vedremo, sono in primis i pensieri personali a compromettere la buona riuscita delle performances sociali, poiché creano aspettative negative sul proprio comportamento.
COSA C’È DI MALE? FOCUS SUI PENSIERI NEGATIVI
I pensieri negativi sono il principale elemento di analisi del cognitivismo, che è solo uno dei diversi orientamenti psicologici che possono aiutarci a inquadrare la sofferenza del paziente ansioso. Dal punto di vista del terapeuta cognitivo è molto pratico usare un ABC per familiarizzare con la vergogna e la paura tipiche dell’ansia sociale. In questo acronimo la A sta per antecedent, ovvero la situazione in cui il paziente soffre; la B sta per belief, vale a dire i pensieri che gli sono venuti in mente in quel frangente; C sta per consequences, e quindi le emozioni provate e le azioni messe in atto. In un tipico caso di ansia sociale sotto la lettera A potremmo leggere “Sono ad una festa e dei ragazzi che non conosco mi hanno chiesto cosa studio”. In C troviamo emozioni come la vergogna, e reazioni di arrossamento – prima – e fuga dalla conversazione – poi. Quali i possibili pensieri negativi inseriti in B? “Vedendomi arrossire mi stanno considerando strano e debole!”. Compilare un ABC aiuta il paziente a diventare consapevole del suo stato: è forse la sua stessa paura del giudizio altrui che lo ha messo a disagio, e fuggire dalla conversazione non lo ha aiutato a superare il suo timore. E poi, cosa c’è di male ad arrossire?

Se arrossisco non sono normale: il circolo vizioso dell’ansia
L’ABC è molto utile quando c’è bisogno di conoscere i pensieri e le emozioni sperimentati in una situazione, per esempio i luoghi pubblici per le persone in cura per l’ereutofobia. D’altra parte il lavoro del terapeuta non dovrebbe fermarsi a questo livello: ci sono altre convinzioni, secondarie, da esaminare criticamente. Quando al paziente viene chiesto cosa c’è di male ad arrossire davanti a tutti potrebbe rispondere “Non sono normale“. Secondo l’ottica dell’ABC è un B’, ovvero un pensiero negativo di secondo ordine: un forte giudizio negativo su di sé, che esprime quello che la persona pensa di ciò che prova. Autovalutazioni simili peggiorano il disagio personale, facendo aumentare la vergogna e i pensieri negativi di partenza, come in un circolo vizioso. I pensieri di secondo ordine hanno la natura dell’autoprescrizione: “non sono normale” significa “non devo assolutamente provare questo, non è normale”. Imposizioni dogmatiche e rigide che fanno star male il paziente quando non riesce a rispettarle, perché vede il fallimento come il segno di un suo difetto. Il primo passo dovrebbe essere riconoscere che la sofferenza, invece, è causata da un’autoistruzione molto severa. E che pensare di non essere normali per essere arrossiti è un errore logico: non è mai una buona cosa trarre giudizi globali su di sé in base ad un solo problema.

Oltre l’ereutofobia: disputare i pensieri negativi
Prove di fatto. Sono quelle che il terapeuta cognitivo chiede al paziente per verificare se le sue convinzioni siano fondate o meno. “In base a cosa ha creduto che pensassero male di lei? Sono così malevoli verso chi suda o arrossisce?”. L’obiettivo è aiutare la persona a realizzare che stare in mezzo alla folla, dopo essersi riempita la mente di aspettative negative sul giudizio degli altri, la spingerà a fare molta attenzione agli atteggiamenti di chiunque e a vedere continui segnali di disapprovazione. Aiutarla a realizzare che non può essere a conoscenza dei pensieri degli altri, e che forse sono le sue stesse idee a farle provare ansia e vergogna. Le convinzioni di essere noiosi, buffi o strani vanno disputate. E dopotutto, non il giudizio di ognuno è così importante. Sia che si tratti di eritrofobia, o di ansia sociale associata all’eritrofobia, è essenziale evitare che il paziente si isoli dai luoghi pubblici, e incoraggiarlo ad affrontare ciò che teme: questo aumenterà la percezione di potercela fare. Ogni altro intervento che non tenga conto di queste priorità può eliminare l’eritrofobia, ma non le paure che si celano dietro di essa. È quello che accade con gli interventi chirurgici, mezzo estremo per curare il problema. Oltre ai possibili effetti collaterali, le difficoltà del paziente non saranno ridotte. Anche i farmaci, come le benzodiazepine, possono essere usati per diminuire l’agitazione e l’eritrofobia, ma non possono risolvere il timore delle situazioni sociali e del giudizio. Per queste ragioni è sempre raccomandata la psicoterapia.
Fonte
- Il colloquio in psicoterapia cognitiva
G.M. Ruggiero, S. Sassaroli (2013) - Erythrophobia – Problems of Diagnostics and Treatment
Polish Journal of Surgery