La sofferenza può essere tale da portarci a piangere, struggerci in tutti i modi possibili, cercare spiegazioni alternative o soluzioni. Tuttavia, quando viene a mancare la speranza nei confronti del futuro, con essa viene a mancare anche lo slancio vitale e il male di vivere diventa pervasivo. Nient’altro può essere fatto affinché le cose cambino. Non cambieranno mai, o almeno così sembra.
IN BREVE
Indice
IL PESSIMISMO COSMICO
Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Sono questi i primi versi con cui Eugenio Montale descrive la sua condizione ricorrente di profonda infelicità (Ossi di Seppia, 1925). «Rivo strozzato», «incartocciarsi della foglia», «cavallo stramazzato», lasciano immaginare una condizione di oppressione, soffocamento ed impotenza dalle quali sembra impossibile allontanarsi. Pare che un sentimento di grande sofferenza attanagli il nostro grande autore, lo stesso sentimento che vediamo comparire negli scritti di tanti altri poeti dell’epoca, si pensi ad esempio al malessere del celebre Leopardi. Seppur differente da quello di Montale, il male di vivere leopardiano richiama alcuni degli elementi riportati nelle prime righe di questa sezione. La vita stessa, infatti, viene considerata dal poeta come infelice; gli uomini sono condannati al dolore e all’angoscia senza via di scampo e la natura non fa nulla per aiutarli. Essa è assolutamente indifferente: «se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei» («Dialogo della Natura e di un Islandese», Operette Morali, 1824).
Ben oltre la sola tristezza
La negatività leopardiana ricompare in una composizione successiva (A se stesso, 1833), dove il poeta riporta le seguenti parole:
Amaro e noia
La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
«La vita è amarezza e noia, nient’altro; il mondo è fango». Anche senza parafrasi, i versi trasudano infelicità, vuoto e mancanza di speranza. Le parole di entrambi gli autori, Montale e Leopardi, descrivono una condizione che sembra andare ben oltre la semplice tristezza. L’accumulo di delusioni ha portato entrambi ad una visione estremamente negativa della vita, caratterizzata da pervasività, hopelessness e soffocamento, come se le cose non fossero modificabili in alcun modo. Oramai non ha più senso provarci. In termini filosofici, le persone tristi mantengono una discreto élan vital che continua a tenerle attive sul piano del problem solving: «cosa posso fare per migliorare la mia condizione?». La sofferenza può essere tale da portarci a piangere senza motivo, struggerci in tutti i modi possibili, cercare spiegazioni alternative o soluzioni. Tuttavia, quando viene a mancare la speranza nei confronti del futuro, con essa viene a mancare anche lo slancio vitale e il male di vivere diventa pervasivo. Nient’altro può essere fatto affinché le cose cambino. Non cambieranno mai. Le persone tristi sono piene di infelicità, rabbia e frustrazione, ma non abbandonano il desiderio combattivo grazie al quale le loro vite possono potenzialmente cambiare. Le persone con «male di vivere» sono altrettanto sofferenti, ma non pensano che quella sofferenza possa ridimensionarsi in futuro. La delusione è così pervasiva da renderle inerti nei confronti del mondo.
Il male di vivere oggi
Oggi sappiamo che il male di vivere ha delle cause biologiche ed ambientali conclamate ed è chiaro che se si vive male evidentemente qualcosa non va. Dal punto di vista psicologico si può arrivare a soffrire per una lunga serie di motivi: dall’incongruenza tra aspettative e realtà, ai ricordi traumatici che spesso neanche si sa di avere. Tuttavia, il «male di vivere», inteso come mancanza di speranza nei confronti del futuro, non sempre (per fortuna) è associato all’umore deflesso. Ahimè a volte può capitare che le due condizioni si associno, si parla in questi casi di «depressione», un termine particolarmente diffuso e facilmente over-utilizzato per indicare la semplice tristezza. Effettivamente l’umore può essere «depresso», ma questo non fa del soggetto un paziente con disturbo depressivo.
La controparte concreta del pensiero
La depressione in senso stretto è un disturbo clinico caratterizzato da male di vivere e hopelessness al punto da desiderare la morte nel tentativo di porre fine alla sofferenza. Trattasi di una patologia organica come tante altre in ambito medico, dove gli squilibri molecolari al livello del sistema nervoso centrale (SNC) portano ad una visione del mondo assolutamente distorta. Si fa fatica a vedere «il pensiero» in termini concreti, eppure esso ha un corrispettivo elettrochimico nel SNC. Squilibri del sistema sinaptico possono facilmente portare ad una distorsione del pensiero stesso. Come per altri disturbi medici, per la depressione sono previsti trattamenti farmacologici che vanno a riequilibrare il rilascio di molecole, e di self monitoring della sintomatologia (come il controllo dell’insulina nel diabetico). In questo caso viene chiesto al paziente di riportare «a parole» lo squilibrio dei neurotrasmettitori in determinati momenti della giornata. Partiamo dal presupposto che il linguaggio è il mezzo attraverso cui viene tradotto il pensiero; il pensiero a sua volta è la traduzione di un’attivazione (o disattivazione) biologica alla base. Ne consegue che il linguaggio non è altro che la traduzione verbale dell’attività elettrochimica di base. In altre parole, «sono triste» è la decodifica razionale e verbale di un’attivazione sistemica, dove «sistema» in questo caso indica il corpo umano nel suo insieme.
Mente e corpo coincidono
Come per altre patologie mediche, vi sono predisposizioni genetiche alla depressione, che rendono l’individuo più o meno suscettibile a diversi stressor ambientali. È stato visto ad esempio che il gene che codifica per il trasportatore della serotonina è presente in due varianti, una corta (s) e una lunga (l). La variante s sarebbe associata ad una maggiore sensibilità agli eventi stressanti, di conseguenza al rischio di sviluppo della patologia depressiva o bipolare (Caspi et al., 2003). Gli eventi di vita disturbanti, specialmente quelli infantili, andrebbero infatti a sensibilizzare la risposta sinaptica nel paziente, che di conseguenza sarebbe più predisposto allo sviluppo del disturbo in età adulta. Ad ogni evento infatti corrisponde una risposta molecolare nel SNC (e non solo); più i pazienti sono sensibili agli eventi, più facilmente elicitano le risposte (solitamente tradotte linguisticamente in termini di emozioni negative). Ne deriva che sul lungo termine è più facile sviluppare la patologia in caso di ipersensibilità agli eventi ambientali. Per fare un esempio semplicistico ma intuitivo, più un bambino è sensibile agli sbalzi termici, più è facile che da piccolo si ammali in continuazione. Per questa ragione, in età adulta sarà molto più fragile e predisposto a crisi respiratorie o attacchi d’asma. In quest’ottica l’eziopatogenesi del disturbo depressivo non sembra diversa rispetto a quella di una qualsiasi altra patologia organica.
I DISTURBI DELL’UMORE IN TERMINI CLINICI
La categoria diagnostica dei disturbi dell’umore include un insieme di patologie psichiatriche in cui gli episodi di alterazione psicologica del tono dell’umore (depressione o euforia) e l’impossibilità di controllo sullo stesso dominano il quadro clinico. Sono tutte caratterizzate dalla presenza contemporanea di segni e sintomi a livello dell’attività, delle capacità cognitive, del linguaggio e delle funzioni vegetative (sonno, appetito, libido). I due disturbi più famosi di questa categoria sono senz’altro il disturbo bipolare e quello depressivo maggiore. Entrambi sono diagnosticabili solo in seguito ad un significativo ed evidentemente peggioramento dell’abituale funzionamento del soggetto e sono ambedue caratterizzati da ciclicità nel tempo. Se nel paziente depresso l’alternanza è tra down (umore deflesso) e normotimia (umore normale), nel disturbo bipolare l’alternanza si estende su un range umorale più ampio: dalla mania (euforia) alla depressione (male di vivere).
La depressione maggiore ricorrente
«Depressione» può indicare sintomi depressivi, sindromi depressive, disturbi depressivi.
- Sintomi depressivi isolati, non clinicamente significativi, associati ad esperienze di vita od eventi stressanti. Sia chiaro che anche la depressione maggiore può essere associata ad eventi di vita, ma generalmente il quadro clinico è ben più complesso e pervasivo. Inoltre si sottolinea che a volte può succedere che il disturbo depressivo si manifesti di punto in bianco senza evento esterno scatenante, per semplice squilibrio molecolare, non causato da eventi o circostanze ambientali;
- Sindromi depressive nelle quali si riscontra un insieme riconoscibile di sintomi e segni di depressione clinicamente rilevanti, sia per il grado di sofferenza che di compromissione funzionale, che si manifestano nel corso di molte malattie mediche e psichiatriche. Ad esempio, il paziente con un quadro depressivo secondario ad una patologia di altro tipo presenta una «sindrome»;
- Disturbi depressivi nei quali è primario un episodio di alterazione del tono dell’umore, caratterizzato da una costellazione di segni e sintomi che soddisfano i criteri codificati nella nosografia psichiatrica.
È importante riuscire a distinguere una condizione dall’altra. Il sintomo centrale in ogni caso è un sentimento di malinconia, immodificabile e persistente. Un’altra caratteristica è la cosiddetta inerzia motoria: l’affievolirsi della volontà del soggetto è un importante elemento che contraddistingue la mancanza di volizione da una semplice tristezza. Nei quadri depressivi vi è una perdita pressoché totale della volizione e del desiderio. Nulla è più utile, i pazienti arrivano a non alzarsi più dal letto. Il paziente stesso sperimenta un malessere, un dolore morale che coincide con la consapevolezza della propria incapacità di provare piacere rispetto a stimoli fisici.
Male di vivere: significato e sintomi
Per poter fare diagnosi è necessario che il paziente manifesti almeno 5 dei seguenti sintomi presenti da almeno 2 settimane consecutive, determinanti un chiaro cambiamento rispetto al funzionamento precedente:
- Umore depresso quasi ogni giorno per la maggior parte del giorno;
- Perdite di interesse/piacere (anedonia) in quasi tutte le attività per la maggior parte del giorno quasi ogni giorno;
- Aumento o perdita di peso significativi o cambiamenti dell’appetito;
- Insonnia/ipersonnia;
- Rallentamento psicomotorio (inerzia) o agitazione;
- Affaticamento/perdita di energia;
- Senso di svalutazione/colpa;
- Perdita di concentrazione o indecisione;
- Pensieri di morte ricorrenti o ideazione suicidaria. Pessimismo, riattualizzazione del negativo ormai passato (colpe, fallimenti, mancanze), intollerabilità del presente (constatazione del deficit), assenza di prospettive per il futuro, finiscono per rendere l’idea della morte un fatto addirittura attraente e positivo: la via di fuga dalla sofferenza, l’unica percorribile. A questo proposito c’è da fare una distinzione tra «idea di morte» e «ideazione suicidaria». Mentre la prima indica il desiderio «passivo» di non esserci più, senza intenzione di passare all’azione («vorrei che il Signore mi prendesse»: «preferirei non svegliarmi più domattina»), l’ideazione indica una forma di pensiero attiva e più rischiosa. Può essere non-strutturata quando il paziente ha deciso di volersi fare del male ma non ha ancora pensato al modo, oppure strutturata, in pratica un suicidio programmato.
Inoltre è necessario che i sintomi causino distress-impairment nel funzionamento sociale/occupazionale. Il disturbo non deve essere meglio spiegato da un altro disturbo psichiatrico, una condizione medica o dall’effetto di sostanze, e non deve esserci mai stato un episodio ipomaniacale/maniacale. Inoltre la diagnosi può essere arricchita da alcuni specificatori:
- Episodio singolo ma solitamente più lungo (1-2 anni): riguarda un 1/3 dei pazienti, generalmente anziani con anamnesi familiare negativa;
- Episodi ricorrenti più brevi (in media 6 mesi): 5-6 episodi nella vita, anamnesi familiare positiva;
- Severità dell’episodio attuale: lieve – moderato – severo;
- Presenza di caratteristiche psicotiche (10-15% dei pazienti): il pensiero negativo assume proporzioni deliranti dove con «delirio» si intende un insieme di convinzioni non modificabili dall’evidenza e spesso bizzarre. Ad esempio alcuni pazienti possono arrivare a credere fermamente di essere i figli del demonio o di essere morti come accade nella sindrome di Cotard. In generale i deliri depressivi tendono a focalizzarsi sulle quattro fondamentali insicurezze dell’essere umano: salute, condizioni economiche, valori morali e relazioni sociali.
Quando sono triste non sono depresso
Sembra chiaro a questo punto che l’umore depresso non è la tristezza. Attenzione a definirsi «depressi». La tristezza un’emozione di risposta a vari eventi, l’umore depresso può nascere invece anche senza stress apparente. Si parla sempre di male di vivere, ma in due modi differenti. Il decorso della depressione ricorrente è variabile ma tipicamente il miglioramento è visibile dopo circa 2-3 mesi dall’insorgenza. Vi è senz’altro familiarità e pare esserci una correlazione con esperienze negative in infanzia. Il post-partum e la menopausa sono periodi critici entro i quali è più probabile che si sviluppi un episodio. Possono esserci comorbidità con il disturbo ossessivo-compulsivo, con l’abuso o dipendenza da alcol, con i disturbi da attacchi panico e di ansia (l’alcol in effetti è il più antico ansiolitico del mondo, quando si parla di alcol generalmente si parla anche di ansia e di malessere in generale). L’esordio tipico è tra i 20 e i 50 anni e non sembrano esserci differenze etniche.
Un sintomo cardine della depressione è l’anedonia, ovvero l’incapacità di provare emozioni. Vengono totalmente a mancare lo slancio vitale e l’entusiasmo. L’emotività è appiattita; la sessualità e l’appetito (in generale la ricerca del piacere) vengono meno. Altri sintomi tipici sono quelli cognitivi: valutazione negativa di sé, del mondo e del futuro, secondo la triade di Beck. Il peggio arriva quando la persona finisce per ritenersi un peso per gli altri. Quando la vita non è più degna di essere vissuta, è meglio morire… la mancanza di spinta porta ad una vera e propria inerzia, intesa come incapacità di agire fisicamente o mentalmente, caratterizzata da povertà di movimenti spontanei, ridotti flusso e ricchezza dell’eloquio. È difficile interloquire con un paziente depresso, per questa ragione, prima della psicoterapia è sempre consigliabile un intervento farmacologico sintomatico che lo renda nuovamente interattivo. Solo di conseguenza può intervenire lo psicoterapeuta col fine di ristrutturare l’identità oramai distrutta di una persona altrettanto distrutta.
Stagionalità e cronobiologia
Il disturbo è tipicamente caratterizzato da stagionalità; sembra esserci infatti un peggioramento della condizione in autunno, inverno e primavera (mentre in estate tendono ad essere più frequenti gli episodi maniacali nel disturbo bipolare). Si pensa che la causa stia nella luce, ma non è per nulla certo. D’estate tuttavia è vero che la luce è maggiormente presente, dormiamo meno, quindi è giustificabile un’iperattività del paziente. Molti dei nostri geni dopotutto vengono attivati dalla luce, come in tanti altri animali. Nei paesi nordici infatti la depressione sembra essere molto più diffusa, specialmente nei periodi particolarmente cupi e scuri. Proprio sulla base della cronobiologia, è stata ideata un’efficace tecnica per i disturbi dell’umore (Light Therapy) che utilizza la luce e la manipolazione del sonno per riequilibrare rapidamente il rilascio di molecole nel sistema.
Tra i disturbi vegetativi compaiono insonnia e ipersonnia, ma solitamente è più frequente la prima della seconda. L’insonnia che tipicamente anticipa un episodio depressivo è quella terminale: il paziente si sveglia alle prime ore del mattino e non riesce più ad addormentarsi. Si ritrova solo, angosciato, al buio, si parla infatti di «ore del suicidio». Anche inappetenza e iperfagia possono essere presenti, ma la prima (associata ad un sostanziale calo ponderale) ancora una volta è più frequente rispetto alla seconda. Altri sintomi sono il calo della libido e le variazioni circadiane con peggioramento mattutino. Di mattina i pazienti tendenzialmente stanno peggio al punto di non volersi alzare dal letto, poi tendono a migliorare durante la giornata, ma comunque non arrivano a stare bene, semplicemente in serata arrivano a stare «meno peggio». Nelle persone ansiose di base, la situazione solitamente è inversa: il peggioramento tende ad essere serotino, non perché peggiora l’episodio in sé, ma per via della componente psicologica negativa (la giornata sta volgendo al termine, il buio prende il posto della luce, la vita sembra essere un fallimento). Il rischio suicidario va decisamente preso in considerazione, specialmente nella fase acuta dell’episodio. È vero che il paziente in fase acuta «non ha le forze» di compiere nulla, ma proprio per questo motivo potrebbe sfruttare le uniche energie che ha per suicidarsi, in questo modo lascerebbe liberi tutti. Nel loro pool cognitivo, questa particolare cognizione distorta (essere male per tutti), dà loro una grande forza volitiva, l’unica che mantengono.
Altri disturbi depressivi
La depressione maggiore ricorrente non è l’unica manifestazione clinica di umore depressivo. Seguono brevemente altri esempi:
- Disturbo da disregolazione dell’umore dirompente: gravi e ricorrenti scoppi di collera manifestati verbalmente o comportamentalmente, sproporzionati per intensità e durata rispetto alla situazione scatenante. Possono comparire tre o più volte alla settimana, fra uno scoppio e l’altro l’umore tende ad essere depresso. Per la diagnosi, la condizione deve durare da almeno 12 mesi. Solitamente il disturbo compare fra i 6 e i 18 anni e si manifesta come un’eccessiva frustrazione;
- Disturbo depressivo persistente («distimia» nel DSM-IV): presenta caratteristiche temporali prolungate. Dura da almeno due anni e può esordire prima dei 21, ma anche dopo nella sua forma tardiva. «Persistere» non vuol dire «cronicizzare». Non si parla di depressione cronica in senso stretto, il quadro è meno grave. Nella distimia l’umore è tendenzialmente depresso, l’energia è scarsa e l’autostima è bassa, ma non si arriva a deliri ed allucinazioni depressive. I pazienti con distimia faticano a concentrarsi e a prendere decisioni anche apparentemente banali; prevalgono anedonia e spossatezza. A volte non è facile distinguere la distimia dalla depressione, ma il criterio temporale può aiutare. Dopo un certo periodo la depressione tende a sparire da sola, per poi tornare. La distimia invece è persistente, inoltre spesso si associa ad una scarsa risposta farmacologica, mentre sembra essere particolarmente efficace la psicoterapia, come per tutti i disturbi cronici. L’assetto stesso della persona si modifica in due anni di sofferenza, solo la psicoterapia, generalmente cognitivo-comportamentale, può aiutare a ricalibrarlo;
- Disturbo disforico premestruale: porta a marcata labilità affettiva, marcata irritabilità o rabbia, umore marcatamente depresso, ansia marcata, diminuito interesse nelle attività abituali, difficoltà di concentrazione, letargia, affaticabilità, modificazioni dell’appetito, insonnia o ipersonnia, senso di sopraffazione o di essere fuori controllo, sintomi fisici quali tensione mammaria, dolore articolare o muscolare, senso di gonfiore. In pratica si parla di sintomi premestruali, ma molto più marcati, al punto da dover essere trattati con farmaci antidepressivi. Dopo la mestruazione i sintomi svaniscono. Compaiono in forma lieve in tutte le donne, ma solo una parte di loro arriva al vero e proprio disturbo (ad esempio una sonnolenza che porta ad addormentarsi sul posto di lavoro);
- Depressione post-partum: è legata ad un incremento di prolattina. Può presentarsi in diverse forme, dal semplice maternity blues, al senso di inadeguatezza persistente: «sarò una buona mamma?». Può portare ad insonnia o alterazioni dell’appetito durante l’allattamento, che a sua volta può portare a problemi per il piccolo. In una discreta percentuale di casi, possono esserci manifestazioni deliranti molto gravi che possono spingere il paziente verso un infanticidio o omicidio-suicidio. «Sono la figlia del demonio, il mio bambino è l’incarnazione del male, devo ucciderlo ed uccidere me stessa per il bene del mondo»;
- Disturbo depressivo indotto da sostanze/farmaci. Si parla di manifestazioni depressive e non del disturbo vero e proprio, proprio perché alla base non vi è una malattia ma una sostanza. La depressione è solo secondaria all’utilizzo di alcol, fenciclidina, allucinogeni, oppioidi, sedativi, ipnotici, amfetamine, cocaina… ovviamente nel caso di sostanze attivanti, si parla di depressione in seguito alla sospensione della sostanza e non in seguito alla somministrazione;
- Disturbo dovuto a condizioni mediche, ad esempio l’ipotiroidismo;
- Disturbo depressivo con altra specificazione, ad esempio depressione breve ricorrente (2-13 giorni almeno una volta al mese);
- Disturbo depressivo senza specificazione: se vi è un disturbo depressivo senza che tutti i criteri diagnostici vengano soddisfatti per una categoria depressiva specifica. Si può parlare anche depressione minore: minor numero di sintomi, durata minore, ma significativa disabilità (in ogni caso se il criterio della disfunzione non è soddisfatto, allora non è possibile parlare di disturbo);
- Seasonal affective disorder syndrome (SADS): si parla di winter blues, con onset nel tardo autunno e guarigione in primavera. È il tipo di depressione più sensibile alla fototerapia, o Light Therapy. Presenta solitamente sintomi atipici ovvero ipersonnia anziché insonnia, iperfagia e craving per i carboidrati anziché inappetenza, fluttuazioni circadiane invertite (stare meglio la mattina e non la sera);
- Disturbo dell’adattamento. Riguarda i pazienti che, in seguito ad un cambiamento positivo (nasce un fratellino/figlio) o negativo (lutto, separazione, perdita del lavoro), non riescono ad inventarsi una nuova vita in funzione di esso. Rimangono bloccati;
- Depressione nell’anziano. Si parla sempre di depressione, ma in un individuo di una certa età. L’onset non ha sempre un fattore scatenante, può essere causato ad esempio dalla morte della compagna o eventi simili, ma non per forza. Si tratta di una situazione ad alto rischio di suicidio. Vi è spesso una comorbidità con patologie mediche di altro tipo ed un notevole rischio legato alla perdita di peso. Può essere presente un marcato impairment cognitivo (in questo caso si parla di «pseudo-demenza»);
- Depressione in bambini e adolescenti, caratterizzata da un umore facilmente irritabile piuttosto che deflesso, problemi di condotta, scadimento della performance scolastica. Negli adolescenti è frequente l’abuso di sostanze. Il disturbo vero e proprio difficilmente identificabile nell’adolescente perché la distimia può confondersi facilmente con il tipico assetto puberale, mentre nel bambino con l’ansia da separazione.
Agli antipodi: la gioia di vivere
La mania compare in alternanza agli episodi depressivi in quello che viene definito disturbo bipolare. Jaspers la definì come un’«immotivata e traboccante allegria». «La gioia di vivere stimola tutte le pulsioni istintive. Ogni nuovo stimolo distrae il malato» (Karl Jaspers, 1959). Trattasi di uno stato di eccitazione psichica caratterizzato da esaltazione dell’umore, agitazione psicomotoria, estrema volatilità di tutta la vita psichica, agli antipodi con il male di vivere di cui abbiamo parlato fino ad ora. Se il depresso è incapace, il maniacale è megalomanico. Il pensiero è abbondante, veloce (tachipsichismo), tende a presentarsi e a porsi come un pensiero lucido, perfino superiore. In realtà manca di forma ed è estremamente superficiale e caotico. Passato e futuro si fondono, tutto è accelerato, le idee sembrano addirittura sfuggire al paziente che non riesce ad affrontarle verbalmente una per una con logica ed ordine (fuga delle idee). Il paziente è autocentrato e se gli si chiede di ricordare un evento, egli lo ricorda in ogni minimo particolare, esponendolo in maniera estremamente verbosa. Al contrario il depresso non riesce a proiettarsi nel passato, né nel futuro, se non in termini negativi ed estremamente scarni.
Il disturbo bipolare nel DSM
Secondo il DSM il disturbo bipolare viene distinto in:
- Disturbo bipolare di tipo I: la diagnosi viene fatta in presenza di un episodio maniacale che può essere preceduto o seguito da episodi ipomaniacali o depressivi maggiori, ma non per forza lo è. Solitamente nel mezzo vi sono lunghi periodi di normotimia;
- Disturbo bipolare di tipo II: presenza di un episodio ipomaniacale, attuale o pregresso e presenza di un episodio depressivo maggiore attuale o pregresso. Non vi sono momenti di normotimia. Alla depressione segue la mania, senza pausa;
- Disturbo ciclotimico: ricorda la distimia del paragrafo precedente, ma all’umore depressivo si alterna quello ipomaniacale per un periodo di almeno due anni. In pratica identifica un disturbo bipolare presente in forma latente ma persistente;
- Disturbo bipolare e disturbi correlati indotti da sostanze e farmaci;
- Disturbo dovuto ad un’altra condizione medica;
- Disturbo bipolare e disturbi correlati con altra specificazione, ad esempio episodi ipomaniacali a breve durata (2-3 giorni);
- Disturbo bipolare e disturbi correlati senza specificazione, se i sintomi sono presenti ma non a sufficienza da soddisfare tutti i criteri specifici del disturbo.
IL MALE DI VIVERE SECONDO LA PSICOTERAPIA COGNITIVA
Aaron Beck, ex psicoanalista, finì per lavorare in un ambito diverso dal proprio, proprio per via del suo modo di intendere la depressione. La psicoterapia cognitiva, così come la fondò Beck, derivò infatti da osservazioni cliniche basate sulla psicopatologia depressiva. Egli creò una teoria cognitiva della depressione secondo cui i pazienti presentavano una distorsione nell’elaborazione dell’informazione che risultava in una visione intensamente negativa di sé, del futuro e del mondo (la triade di Beck). I processi cognitivi distorti erano quelli che sottostavano ai sintomi affettivi, comportamentali e motivazionali della depressione. La psicopatologia fino a quel momento aveva sempre considerato il rapporto inverso: era la problematica di tipo umorale/affettivo che andava a distorcere la visione della realtà e non il contrario.
Questo modo di ragionare, questa distorsione cognitiva, si pensava fosse conseguenza della deflessione del tono dell’umore. Beck rovesciò il discorso: è la componente cognitiva che genera come conseguenza tutto il resto. La persona con una problematica depressiva non è facilmente consapevole di ciò che le sta accadendo, non sa quindi che la sintomatologia non è altro che una risposta. L’idea della psicoterapia cognitiva è quella di insegnare al paziente cosa sta succedendo e come mai. Quanto più il paziente è grave, tanto più tende a vivere la colpa e la sfiducia come realistiche. Vengono a mancare le competenze metacognitive utili per comprendere la natura dei contenuti mentali. Ogni paziente ha credenze ed opinioni, in questo particolare caso vi è la convinzione di essere responsabili di qualcosa; vi è la convinzione che le cose andranno male. Lo scopo della terapia è quello di intervenire sulle tre aree della triade. Lo stesso discorso vale anche per i pazienti ansiosi, dopotutto in entrambi i casi vi è una preoccupazione per il futuro. Se la persona ansiosa teme che il futuro sia negativo, il depresso ne è sicuro.
Convinzioni negative
Tema centrale della terapia cognitiva è il concetto di beliefs, ovvero l’insieme di credenze, aspettative, attribuzioni di causalità e responsabilità rispetto alla realtà, quindi ciò che i pazienti credono e suppongono. Se il momento in borsa è particolarmente positivo, nell’economista esperto, dopo un’attenta analisi, si crea l’aspettativa di investire guadagnando. Se la supposizione si rivela inaspettatamente sbagliata (la borsa crolla), il nostro economista in condizioni di fisiologia riconosce di non avere alcuna colpa. Ha messo tutto sé stesso nell’analisi costi-benefici e la responsabilità del crollo è del tutto esterna. Non era prevedibile. Il paziente depresso invece tenderebbe a darsi la colpa anche per eventi imprevedibili come questo, e per giunta ne avrebbe certezza. «Avrei dovuto pensarci… ritengo di aver sopravvalutato le mie capacità, sono stato sciocco, stupido e supponente. Ho sbagliato tutto, sia le previsioni che le azioni, sono una persona orrenda, la società andrà in fallimento per colpa mia».
Per il paziente questa è l’unica interpretazione, che non viene nemmeno interpretata come tale; non è vista infatti come un’ipotesi ma come un fatto certo. Vi è un’incapacità nell’andare a considerare l’ipotesi solo come un’ipotesi. L’aspetto auto-giudicante nel paziente depresso deriva direttamente da quelli che secondo lui sono fatti inequivocabili, non interpretazioni. Se il soggetto sano ritiene che la colpa possa essere sua, il paziente depresso ne ha la certezza assoluta. Le idee vengono prese per fatti. Il terapeuta deve aiutare il paziente a distanziarsi da questo tipo di prospettiva. Ciò che viene vissuto come una certezza assoluta deve essere preso solo in termini di punti di vista. Da «io sono l’assassino» a «io sono convinto di essere l’assassino, ma è solo il mio punto di vista».
Gli effetti della terapia
Lo scopo della terapia è quello di identificare e mettere in discussione il contenuto cognitivo delle reazioni del paziente agli eventi. Come effetti:
- La preoccupazione per gli eventi nel recente passato diminuisce, poiché il paziente non conserva più gli aspetti inizialmente allarmanti delle convinzioni. Questa ridotta preoccupazione va ad arginare le ruminazioni e il ricordo degli eventi. Il risultato è un livello di emozione o umore «basale» meno negativo;
- In secondo luogo, le reazioni emotive sconcertanti diventano comprensibili. Attraverso l’adozione di una serie di principi organizzativi e di una visione coerente del mondo secondo cui tutto accade per un motivo, il paziente arriva a vedere una «luce alla fine del tunnel». Non è più in preda all’emotività, ma riesce a controllarla perché ne comprende l’origine;
La prospettiva passa da «sono il colpevole» a «ritengo di essere il colpevole». Una volta che il paziente capisce che la sua non è una certezza, ma solo un punto di vista, riacquista la speranza. Se vi è un’unica alternativa, è normale che non ci sia via di scampo; non appena l’orizzonte si allarga, le alternative compaiono e con esse le vie di fuga.
Come si formano le credenze irrazionali
L’idea è che il paziente compia degli errori di valutazione della realtà senza rendersene conto, detti «errori cognitivi». Lo scopo è quello di riconoscerli e confutarli. In elenco 11 tra i più comuni errori cognitivi che si concatenano gli uni con gli altri:
- All-or-nothing thinking. Ragionare in maniera dualistica (ovviamente irrealistica). Giudicare la realtà alla luce di un sistema binario che funziona per opposti: perfetto o sbagliato, senza vie di mezzo. Ne deriva una certa rigidità cognitiva che va immediatamente ad incasellare ciò che accade in maniera molto semplicistica. Ne deriva un’iper-semplificazione della realtà tale per cui una cosa o è perfetta, o è spregevole, o è giusta, o è sbagliata. Tutto quello che non è in una categoria, finisce nell’altra. In questo modo il paziente non ha la possibilità di andare a valutare nella realtà la molteplicità di possibilità che c’è tra i due poli. Si macchia una camicia, la butto perché non è più perfetta. In questo modo commettere il minimo errore ci rende dei falliti senza futuro;
- Overgeneralizing. Ipergeneralizzazione del negativo. Il paziente trae delle conclusioni generali sulla base di un singolo evento. «Sono una persona violenta perché una volta ho tirato una sberla ad una persona»;
- Discounting the positives: Sottovalutazione del positivo. «Che mi dici di tutte le altre volte che non hai tirato la sberla?», «Non sono importanti»;
- Jumping to conclusion. Saltare alle conclusioni. «Stavo aspettando una telefonata da parte del datore di lavoro dopo il colloquio, ma non mi hanno chiamato. Ovviamente non mi vogliono perché non sono interessante». Non può essere che la causa sia un’altra?;
- Mind reading. Essere convinti di ciò che pensa l’altro, anche se non ci sono delle evidenze confirmatorie. «il capo sta guardando le carte durante il colloquio e non mi presta attenzione, quindi ha già deciso che non mi vuole assumere»;
- Fortune telling. Pensare che il futuro andrà in un certo quale modo, senza possibilità. Frequente nelle popolazioni ad alta ignoranza e scaramanzia: «se il raccolto è andato male, allora l’anno prossimo andrà sicuramente peggio». Non sia mai sfidare gli dei con frasi del tipo «potrebbe andare meglio» perché la loro risposta potrebbe essere «Ah si? Credi questo? Ti faccio vedere io come andrà meglio…»;
- Magnifying/minimizing. Sovrastimare l’importanza di un evento negativo, o sottostimare l’importanza di un evento positivo;
- Emotional reasoning. Pensare che una cosa sia giusta perché semplicemente crediamo che sia giusta, ma giusta per chi? Se ci fa stare male allora forse non è giusta per noi, magari lo è per qualcun altro… non c’è il giusto in senso assoluto;
- Making «should» statements ci porta ad essere vittime di come le cose devono essere o come non devono essere. In altre parole, dirsi che si dovrebbe fare Si dovrebbe secondo quale legge dell’universo? Chi l’ha deciso?;
- Labelling. Uso di etichette emozionali come «sono una cattiva madre», «sono un idiota», «sei un cretino»;
- Inappropriate blaming. Pretendere di saper fare al meglio anche quello che non si sa fare ed incolparsi in caso di fallimento.
Depotenziare l’unica alternativa
Qualunque sia l’errore cognitivo, si finisce per trarre delle conclusioni assolute ed affrettate senza che vengano prese in considerazione tutte le variabili. Beliefs e pensieri irrazionali vengono identificati da Beck come «schemi cognitivi». Gli schemi sono le strutture cognitive che organizzano l’esperienza del paziente. Sono riducibili in maniera deterministica ad un ragionamento logico di tipo if…then («se la borsa è crollata, allora è colpa mia»). Tali schemi cognitivi sono assolutamente automatici, si parla infatti di «pensieri automatici». I pensieri automatici ripetitivi possono aiutare il terapeuta a riconoscere lo schema cognitivo del paziente. Una volta identificati, è possibile togliere loro valore in termini di utilità e validità. Il lavoro della psicoterapia è sull’esperienza concreta. Lo scopo è quello di trovare delle alternative di ragionamento al fine di depotenziare quell’unica alternativa da cui il paziente non riesce a prescindere.
Fonte
- Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5). Raffaello Cortina Editore.
American Psychiatric Association (2014) - Psicologia Clinica. Zanichelli.
Kring A. M., Davison G. C., Neale J. M., Johnson S. L. (2017) - Caspi et al. (2003). Influence of life stress on depression: moderation by a polymorphism in the 5-HTT gene.
Science