Si può parlare di intelligenza sociale quando due o più persone interagiscono, mostrando comprensione ed empatia. Nelle organizzazioni è molto importante essere un capo socialmente intelligente, al punto che lo psicologo Daniel Goleman distingue tra leader con o senza questa capacità. Il motivo è che il supporto del leader conta più del suo QI o delle sue abilità, dal momento che ha effetti benefici sulla prestazione lavorativa del gruppo di lavoro.
IN BREVE
Indice
INTELLIGENZA SOCIALE: ALLA RICERCA DI UNA DEFINIZIONE
Il costrutto dell’intelligenza sociale è ancora alla ricerca di una definizione chiara. Tra le concettualizzazioni più stimate quella dello psicologo Daniel Goleman, che ne parla come della capacità di interagire adeguatamente con altre persone. Il comportamento socialmente intelligente richiede che ci immedesimiamo negli altri – consapevolezza sociale -, ascoltandoli e stabilendo una relazione empatica – facilitazione sociale. Parole non troppo distanti da quelle dello psicologo Edward Thorndike, che già nel 1920 teorizzava l’abilità umana di comprendere gli uomini e di agire in modo saggio nelle interazioni. Le definizioni che hanno fatto seguito, fino a quella di Goleman, hanno chiarito la natura multidimensionale dell’intelligenza sociale, arricchendo le nostre conoscenze sul costrutto.

Un costrutto, tante sfaccettature
Cosa si intende per natura multidimensionale dell’intelligenza sociale? In poche parole, che dobbiamo tenere a mente tutte le sfaccettature che costituiscono questa capacità:
- Comprensione, ovvero riconoscere i sentimenti di chi ci circonda.
- Memoria, per ricordare i nomi e le facce delle persone.
- Percezione sociale, per capire quali informazioni sono davvero importanti.
- Creatività, utile a generare più interpretazioni o soluzioni in una situazione.
- Conoscenza sociale, insieme di informazioni sul mondo e sulla cultura.
Non tutti gli autori che hanno studiato l’intelligenza sociale hanno tenuto in considerazione ognuna di queste componenti: questa discordanza ha fatto sì che gli strumenti di valutazione misurassero talvolta cose diverse e in modo parziale. Qual è allora il fattore comune a tutte le definizioni e a tutte le sfaccettature dell’intelligenza sociale?

Si può parlare di comportamento socialmente intelligente ogni volta che interagiamo con qualcuno. Tutti gli autori, in qualche modo, riconoscono nelle loro definizioni questo aspetto, peraltro legittimato dalle neuroscienze. La scoperta dei neuroni specchio (avvenuta nel 1992 per opera del team di Giacomo Rizzolatti) è la prova che il cervello “mima” le azioni di chi ci circonda: ciò ci consente di navigare nel nostro mondo interpersonale, di riconoscere sentimenti e di condividere esperienze. Come afferma Goleman, i neuroni specchio e l’intelligenza sociale hanno un ruolo molto importante nelle organizzazioni lavorative. Grazie all’attivazione di specifici circuiti cerebrali le emozioni e le azioni del leader possono essere “riprodotte” dai sottoposti: i collaboratori diventano letteralmente lo specchio del leader. Come vedremo, questo è possibile solo quando il rapporto si fonda su delle solide basi di reciprocità emotiva e supporto.
Un passo indietro: l’intelligenza emotiva
Ancor prima di occuparsi di intelligenza sociale, Daniel Goleman nel 1995 introduceva un aspetto dell’intelligenza nel quale le reazioni emotive hanno un ruolo centrale: l’intelligenza emotiva, ovvero la capacità di riconoscere, comprendere e gestire le emozioni. Anche in questo caso, ci sono diverse sfaccettature da considerare. L’intelligenza emotiva è:
- Autoconsapevolezza, delle emozioni e dei punti di forza o di debolezza.
- Autoregolazione, degli impulsi e dell’umore.
- Motivazione, a raggiungere gli obiettivi prefissati con persistenza.
- Empatia, ovvero interagire con le persone in accordo con le loro emozioni.
- Abilità sociale, come il saper costruire relazioni salde.
Alcuni la considerano sovrapponibile all’intelligenza sociale. In realtà, come spiega lo stesso Goleman, i progressi nel campo delle neuroscienze sociali hanno reso necessaria l’estensione del concetto di intelligenza emotiva, che si fonda sulle teorie della psicologia individuale. Da qui la nascita del costrutto di intelligenza sociale, più orientato alla relazione interpersonale, supportato dalle scoperte neuroscientifiche e adatto a valutare la leadership.
ESSERE LEADER IN UN’ORGANIZZAZIONE
Non tutti i leader sono uguali, soprattutto dal punto di vista dei subordinati. Uno studio può chiarire le implicazioni di questa affermazione. All’interno di un’organizzazione è stata monitorata la prestazione di due gruppi lavorativi. Dopo la fine del compito, a un gruppo era dato un feedback positivo, con tono critico e poco esaltante; l’altro riceveva un feedback negativo sul lavoro svolto, ma il capo mostrava allo stesso tempo sorrisi e cenni di consenso. Due feedback opposti e due differenti modi di esprimere il messaggio. Vi stupirebbe sapere che il modo in cui il messaggio è mandato vale più del suo stesso contenuto? Dai risultati della ricerca è emerso proprio questo: pur ricevendo una valutazione negativa, i lavoratori che percepiscono il supporto e l’empatia – il comportameno socialmente intelligente – del loro leader hanno una stima maggiore della prestazione offerta. L’altro gruppo, nonostante il feedback positivo, aveva una scarsa considerazione del lavoro svolto.
Teorie a confronto
Il leader è la figura che può influenzare gli altri membri di un gruppo più di quanto sia essa stessa influenzata. I suoi tratti caratteristici sono l’intelligenza, l’intuizione, la responsabilità e la socievolezza, ma tutto questo non basta a spiegarne l’efficacia. I comportamenti che mette in atto influenzano la sua riuscita e le prestazioni del team che dirige. Per esempio, il capo autocratico gestisce tutto da solo, senza comunicare o rendere i collaboratori partecipi. Un leader permissivo lascia ampia libertà decisionale al gruppo, intervenendo raramente. Tra questi estremi opposti il leader democratico, il quale stimola l’attività coordinata e, con tono amichevole, rende partecipativi i suoi seguaci. In aggiunta, il capo deve guadagnarsi la fiducia dei suoi followers. Secondo Hollander (1958) quattro necessità devono essere soddisfatte: il conformismo iniziale alle norme del gruppo; la dimostrazione delle proprie competenze; il riconoscimento della legittimità del proprio status; l’identificazione con gli scopi e la natura del gruppo.

Ma, allora, esistono leader migliori di altri? Non è facile rispondere a questa domanda: ad alcuni interessa soltanto raggiungere gli obiettivi; altri sono poco presenti; altri ancora vogliono produrre risultati contando sul lavoro di squadra e sui buoni rapporti di gruppo. Alla lunga, sembra che siano proprio questi ultimi, ovvero i leader orientati al compito e alle persone, a ottenere le prestazioni migliori dai loro seguaci. La loro intelligenza sociale riveste un ruolo importante nel lavoro svolto: aiuta a trasmettere entusiasmo, a confrontarsi con le sfide, a pianificare il raggiungimento di traguardi e ad empatizzare con le persone. Goleman e Boyatzis definiscono questo tipo di leader “sintonizzato”: i compiti e la relazione con i sottoposti risultano coordinati. Ancora una volta fondamentale il contributo di specifici circuiti cerebrali: i neuroni specchio per la comprensione degli altri; i neuroni oscillatori per la regolazione del tempo e dei modi con cui i corpi, in maniera sincrona, si muovono.
Leadership, intelligenza sociale e differenze di genere
L’ambito produttivo è stato a lungo pensato dagli uomini per gli uomini. Attualmente il mondo degli affari e i settori strategici continuano a sembrare “maschili”, ma è evidente che la presenza delle donne nelle organizzazioni o al vertice delle stesse stia aumentando. Ma leadership femminile e maschile si differenziano? I dati sono ancora limitati, ma una differenza sostanziale sta emergendo: mentre gli uomini preferiscono una struttura di organizzazione verticale – una gerarchia in cui il potere è concentrato al vertice -, le donne sono più propense a creare network di persone che prendono decisioni insieme. Nella leadership femminista il potere non è dominazione, ma condivisione di forze; il conflitto non è lotta, bensì momento di interazione e ricerca di soluzioni. Ulteriori studi serviranno per confermare questi risultati. Intanto, è molto importante sapere che non esistono differenze nell’intelligenza sociale: in ogni caso essa rappresenta potenzialmente un valore aggiunto per tutti i leader, a prescindere dal genere.
Il contributo dell’intelligenza emotiva
«Il QI e le abilità tecniche sono importanti, ma l’intelligenza emotiva è la conditio sine qua non del leader». Goleman esordisce con queste parole in un articolo pubblicato nel ’98, in cui sottolinea come le qualità tipicamente associate alla leadership – come l’intuizione – non siano sufficienti per il successo. Nell’analisi dei fattori che predicono performance lavorative eccellenti l’intelligenza emotiva ha mostrato di avere un impatto due volte maggiore del quoziente intellettivo, per tutti i tipi di lavoro. Inoltre, salendo nella gerarchia organizzativa fino alle posizioni più alte, acquisisce sempre più importanza nello spiegare i risultati ottenuti da un individuo: è stato dimostrato che le differenze tra leader molto efficaci e leader mediamente efficaci sono spiegate per il 90% dall’intelligenza emotiva. In seguito alla diffusione di queste informazioni, nel mondo degli affari si è iniziato a considerare il ruolo fondamentale dell’empatia e dell’autoconsapevolezza. La successiva ridefinizione in intelligenza sociale – stimolata dalla scoperta che ciò che il leader fa produce cambiamenti chimici anche nel cervello dei suoi sottoposti – non ha fatto altro che aumentare questo interesse.
L’INTELLIGENZA SOCIALE PUÒ ESSERE APPRESA?
Un ultimo dato per rimarcare definitivamente l’importanza dell’intelligenza sociale: nei momenti di crisi i lavoratori che sentono di avere capi socialmente non intelligenti riportano tassi di insoddisfazione e di esaurimento più alti, con ricadute sulla qualità del loro servizio. Per questa ragione le aziende interessate allo sviluppo di una leadership efficace dovrebbero valutare preliminarmente la disponibilità al cambiamento dei futuri capi e inserire l’intelligenza sociale nell’educazione organizzativa. Un capo che possieda ottime capacità di pianificazione strategica e visione, ma che nel confronto con subordinati e superiori si mostri aggressivo e per niente sintonizzato, finirà col navigare in cattive acque.

Inevitabilmente emergeranno conflitti che metteranno a rischio il raggiungimento degli obiettivi organizzativi. Deutch (1973) evidenzia gli elementi distruttivi del conflitto:
- Distorsione delle percezioni. I pensieri alimentano la propria visione del conflitto, mentre le idee interpretate come contrarie sono respinte.
- Amplificazione delle differenze e minimizzazione delle somiglianze. Le posizioni dei contendenti vengono estremizzate in poli opposti.
- Irrigidimento delle posizioni. Le persone si chiudono e le questioni sono dicotomizzate (giusto/sbagliato; bene/male ecc.).
- Impoverimento della comunicazione. Aumenta la tendenza a difendere il proprio punto di vista dalle posizioni opposte.
- Impatto emotivo. L’ansia, la frustrazione e la rabbia prendono il sopravvento e i comportamenti diventano irrazionali.
- Cultura del vincere/perdere. Gli obiettivi non possono essere condivisi: solo una delle parti in causa ha ragione.
- Confusione. L’analisi del problema non è lucida e non si è capaci di capire come superarlo.
- Aumento esponenziale del conflitto. La chiusura aumenta e la comunicazione svanisce.
A questo punto il leader dovrebbe riconoscere il bisogno di migliorare le sue abilità sociali nella gestione delle relazioni.
Il momento di rivedere le strategie del leader
Ma come è possibile apprendere l’intelligenza sociale, o migliorarla? La supervisione di uno psicologo delle organizzazioni consente di identificare le problematicità emerse nel confronto con il gruppo lavorativo. Il leader ha colto i valori del gruppo? Riesce ad esercitare influenza e a ricevere sostegno? È in grado di favorire la partecipazione di tutti, spingendoli a dare il meglio? In altre parole, è socialmente intelligente? Una risposta negativa ad una sola di queste domande dovrebbe essere un campanello d’allarme. Lo psicologo può avere colloqui con i membri del gruppo e avere da loro valutazioni sulle capacità empatiche e diplomatiche del loro leader. Alla luce dei feedback ricevuti, al leader è proposto un progetto di cambiamento personale. Dovrà impegnarsi nella comprensione delle norme del team che dirige e delle emozioni che emergono nel dibattito; dovrà tener conto della necessità di esprimere le proprie opinioni in maniera consona e di reagire opportunamente alle prestazioni negative dei suoi collaboratori; dovrà imparare a prevedere le reazioni del gruppo ai suoi comportamenti, così da sviluppare capacità di autoregolazione.
Negoziare la convivenza organizzativa
Se il leader e il team cominciano a lavorare in modo interdipendente alla ricerca di un accordo, piuttosto che contrapporsi con l’intento di imporre le proprie soluzioni, può definirsi conclusa la negoziazione, ovvero «il processo decisorio nel quale due o più parti interagiscono nel tentativo di risolvere o, comunque, di gestire i loro opposti interessi» (Avallone, 2011). Essa deve riguardare gli elementi intangibili del rapporto con il gruppo di lavoro: i membri hanno bisogno di sentirsi riconosciuti, di avere fiducia nel loro capo e di non sentirsi sconfitti dalla negoziazione. Nel prosieguo della relazione sarà importante che tutti i soggetti coinvolti si impegnino ad essere socialmente intelligenti. Al leader, soprattutto, è richiesto di:
- Favorire il flusso delle informazioni, per discutere di problemi e soluzioni.
- Comprendere i bisogni dei suoi seguaci, comunicando in maniera chiara.
- Enfatizzare le convergenze, sottolineando la condivisione delle idee.
- Cercare soluzioni che soddisfino le esigenze di tutti, in virtù degli obiettivi.
Così facendo, le nuove abilità apprese diventano gradualmente spontanee e automatiche e i circuiti cerebrali del comportamento sociale – neuroni specchio – si consolidano.
Fonte
- Social intelligence and the biology of leadership
Harvard Business Review - What Makes a Leader?
Harvard Business Review - Psicologia del lavoro e delle organizzazioni
F. Avallone (2011)