“Non ho voglia di lavorare”, quante volte lo abbiamo detto? In alcuni casi non è un semplice pensiero passeggero e può riflettere problemi ben più seri. Ci troviamo bene a lavoro? Siamo soddisfatti? In questo articolo parleremo di alcune delle criticità che spingono una persona ad essere meno entusiasta del proprio lavoro, analizzando possibili conseguenze e rimedi allo stress secondo la psicologia delle organizzazioni.
IN BREVE
Indice
- 1. LAVORARE: QUANTO È IMPORTANTE, QUANTO È DIFFICILE
- 1.1 Prestazione lavorativa: come mantenere buoni livelli nel tempo?
- 1.2 Non ho voglia di andare a lavorare: sentirsi insoddisfatti
- 1.3 Oggi non ho voglia di lavorare: che noia
- 1.4 Non ho più voglia di lavorare: non mi trovo bene con gli altri
- 1.5 Non ho voglia di lavorare perché la mia vita è un fallimento
- 2. NON HO VOGLIA DI LAVORARE, COSA DICE LA PSICOLOGIA?
LAVORARE: QUANTO È IMPORTANTE, QUANTO È DIFFICILE
Quante volte, durante gli anni della scuola, abbiamo detto “non ho voglia di studiare“? E in quante altre occasioni abbiamo esclamato “oggi non ho voglia di lavorare“? Insomma, tutti noi in qualche momento abbiamo avuto delle giornate non brillantissime, quelle in cui tutti ci sentivano dire appena alzati “oggi non ho voglia di fare niente!”. Notti insonni, stress e vita frenetica possono ridurre le energie e la volontà di svolgere le proprie mansioni, ma si tratta di alterazioni episodiche che, in genere, non producono danni sull’operato e sulla valutazione di ciò che si fa. Ci sono, poi, situazioni più serie che impediscono a un individuo di offrire prestazioni che siano all’altezza. Quanto è importante oggi il lavoro? La società si fonda su di esso: è fondamentale per la sussistenza e per concedersi dei piaceri; è espressione delle capacità e delle competenze individuali; contribuisce a sentirsi apprezzati dagli altri. Anche la diagnosi di un disturbo psichiatrico non prescinde dal grado di compromissione lavorativa che l’individuo riporta a causa della malattia mentale. Per esempio, nella quinta edizione del manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM), uno dei criteri per la diagnosi di depressione maggiore è “la compromissione del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti”.
Prestazione lavorativa: come mantenere buoni livelli nel tempo?
Lo stress psicologico, una disabilità fisica o difficoltà interne al lavoro rischiano di abbassare la qualità della prestazione offerta. Secondo Roe (1999) la prestazione lavorativa si può definire in due modi:
- È il processo attraverso il quale le persone provano a raggiungere un obiettivo loro assegnato.
- È il risultato del lavoro, indica il livello di congruenza tra l’obiettivo assegnato e l’esito del processo.
Le azioni prodotte e la valutazione che esse ricevono hanno un impatto importante sulle conoscenze, sulla motivazione e sull’immagine che il lavoratore ha di sé. A lungo termine, hanno effetti sulla personalità e sulla salute. Alcuni meccanismi di autoregolazione sono necessari per il mantenimento del benessere e di una buona prestazione:
- Regolazione dell’azione. I compiti non devono essere eseguiti meccanicamente ma devono essere coerenti con l’obiettivo stabilito.
- Regolazione energetica. L’energia mentale (memoria, pensiero) varia durante la giornata, a seconda delle mansioni. Le circostanze sfavorevoli possono richiedere un incremento di energia necessaria.
- Regolazione della vitalità. Occorre sentirsi energici e motivati a lavorare. In caso contrario compaiono passività e burnout.
- Regolazione dell’immagine di sé. Ottenere un successo lavorativo scatena un sentimento di realizzazione; il mancato raggiungimento produce sensazione di fallimento. Se l’immagine di sé risente troppo negativamente degli insuccessi e non si alimenta dei successi, le successive prestazioni saranno carenti.
Alla luce di questi meccanismi appare chiaro che non soltanto eventi esterni, ma anche dinamiche interne al lavoro, possono avere effetti avversi sulla prestazione. Nel prossimo paragrafo ne approfondiremo alcune.
Non ho voglia di andare a lavorare: sentirsi insoddisfatti
Le persone trascorrono buona parte della loro giornata a lavoro, per cui è importante sentirsi soddisfatti non solo per il bene dell’organizzazione ma anche per il proprio benessere psicofisico. Una persona può dirsi soddisfatta della propria occupazione quando provi un sentimento di piacevolezza, derivante dalla percezione che l’attività soddisfi i valori personali (Locke, 1967). In quali casi questo sentimento viene meno? Se c’è la sensazione che il compenso ricevuto non sia adeguato al servizio offerto o se non ci si sente in grado di svolgere il compito assegnato. I lavoratori che si sentono più facilmente insoddisfatti sono quelli con un locus of control esterno, cioè quelli che tendono ad attribuire i successi ottenuti a fattori non interni alla persona, come la fortuna o il caso, e che, in generale, non sentono di poter padroneggiare gli eventi. Alcuni indicatori del malessere provato in casi simili sono:
- Insofferenza nell’andare a lavoro.
- Lentezza nella performance.
- Disinteresse per il lavoro.
- Sentirsi irrilevanti.
- Sentirsi inutili.
- Risentimento.
La soddisfazione è in rapporto circolare con la prestazione lavorativa, per cui la bassa soddisfazione diminuisce la qualità della performance e, allo stesso tempo, i feedback negativi sulla qualità del compito svolto riducono la soddisfazione. In questi casi le persone preferiscono cercare una nuova occupazione.
Oggi non ho voglia di lavorare: che noia
Mancanza di interesse, difficoltà a concentrarsi e incapacità di attribuire un significato al lavoro che si svolge: queste sono le caratteristiche essenziali della noia. Uno stato spiacevole che, quando diventa prolungato, si traduce nell’impossibilità di vivere le emozioni lavorative, come in una forma di alienazione. Ci si è domandato a lungo da dove originasse questo sentimento e quali effetti comportasse. Alcune ricerche evidenziano che le persone più estroverse e creative, che hanno bisogno di nuove sensazioni, si annoiano più facilmente, soprattutto se bisogna svolgere compiti ripetitivi e poco stimolanti, che non sono seguiti da feedback, o se non hanno nulla da fare. Ma perché la noia è così deleteria? Fondamentalmente perché rimane inespressa. Già da bambini, ci viene insegnato che è socialmente inaccettabile esprimerla quando dobbiamo fare qualcosa che ci è imposto. Nelle organizzazioni accade qualcosa di simile. Peraltro, molto spesso, riconoscere di essere annoiati è interpretato come un segno di fallimento. Se la noia cronicizza, tuttavia, aumentano il rischio di assenteismo e di insoddisfazione.
Non ho più voglia di lavorare: non mi trovo bene con gli altri
Convivere in un’organizzazione non è affatto semplice: può apparire scontato, ma è richiesto molto impegno per l’integrazione e il rispetto delle differenze, in un processo orientato alla ricerca costante di nuovi equilibri. Nelle organizzazioni questo è ancora più difficile, perché le persone non si scelgono – come accade, per esempio, nelle relazioni amorose – e sono costrette a condividere tempo e spazio con altri. Il vivere insieme risulta funzionale quando le relazioni sono basate su collaborazione, rispetto, tolleranza e fiducia e alimentano il senso di soddisfazione e gratificazione. Particolari criticità, invece, emergono quando non v’è idea di condivisione e rispetto reciproco. Tre fattori risultano cruciali in questo caso:
- Potere contro. Organizzazione come arena, in cui ci sono interessi personali da perseguire e i colleghi sono un ostacolo all’autorealizzazione.
- Mancanza di rispetto. Capo, collaboratori e colleghi non hanno rispetto del lavoro e delle idee altrui; non rispettano gli orari e le scadenze; non si assumono le loro responsabilità.
- Differenze. I membri dell’organizzazione non lavorano in modo sinergico per il perseguimento degli obiettivi.
Ulteriori ricerche hanno svelato quali sono gli elementi essenziali per donne e uomini per una buona convivenza tra colleghi: le donne tendono a non trovarsi bene con gli altri quando mancano comunicazione e tolleranza, mentre gli uomini sembrano soffrire maggiormente la mancanza di fiducia.
Non ho voglia di lavorare perché la mia vita è un fallimento
Spesso ci lasciamo andare a delle sentenze, che sanno di eccessiva generalizzazione. “Quel tizio è un buono a nulla”; “Sono un totale fallimento”. Benché alcune cose possano sembrare immediate e certe, occorre ricordare sempre che la valutazione di una persona – sia come valutazione di sé, sia come giudizio sugli altri – è limitata ad uno specifico campo. In altri termini, bisognerebbe valutare specifiche azioni o situazioni piuttosto che la persona globalmente. Alcuni faticano a riconoscere questa distinzione. Così, può accadere che gli avvenimenti lavorativi si rovescino su altri ambiti, e viceversa. L’insoddisfazione sul lavoro può causare insoddisfazione nella vita, aumentando i rischi di stress psicologico e burnout. Ci sono strategie, più funzionali, che permettono di aggirare questo esito sfavorevole. Una possibilità è quella di cercare gratificazione in altri ambiti di vita, nonostante le difficoltà a lavoro, come una forma di compensazione. In altri casi, le persone riescono a tenere separate la vita lavorativa e la vita extra-lavorativa: ciò comporta un alto costo emotivo, ma gli eventuali fallimenti non influenzeranno in toto la stima di sé.
NON HO VOGLIA DI LAVORARE, COSA DICE LA PSICOLOGIA?
Insomma, diversi elementi possono causare malessere al momento di recarsi a lavoro. Come abbiamo visto l’insoddisfazione lavorativa è ben più marcata della semplice mancanza di voglia, occasionale e passeggera. Noia, cattiva convivenza ed eventi di vita negativi alimentano il senso di frustrazione e insofferenza e, a lungo termine, aumentano le possibilità di burnout e assenteismo. Uscire da questa impasse non è semplice né scontato: evidentemente per ogni persona esistono soluzioni differenti. Alcune indicazioni generali possono, però, essere considerate. È già stato detto che uno dei problemi che sorgono quando ci si sente annoiati ha a che fare con l’impossibilità percepita di esprimere questo stato negativo. Effettivamente, nella società come nelle organizzazioni, è un argomento tabù: riconoscerla ed esprimerla è sinonimo di fallimento e fonte di senso di colpa. Tuttavia, è una credenza errata che la noia sia solo un difetto personale, perché è nel contesto lavorativo che essa origina. Le aziende, per mantenere livelli adeguati di stimolazione intellettuale, dovrebbero favorire i cambiamenti di ruolo, l’acquisizione di nuove competenze e conoscenze e riconoscere gli sforzi individuali con dei feedback. La tolleranza e la solidarietà, inoltre, sono imprescindibili per il corretto vivere insieme dei colleghi, per cui dovrebbero essere temi centrali della cultura dell’organizzazione.
Come reagire allo stress
Chiaramente non dipende solo da sé stessi. Colleghi e organizzazione hanno un ruolo importante nelle dinamiche che fanno sentire un lavoratore apprezzato, soddisfatto e motivato. Anche in virtù di questo lo stress è inevitabile, ciò che fa la differenza è come viene affrontato. In letteratura questo processo è noto come coping, termine introdotto in psicologia da Lazarus (1966), come meccanismo di risposta allo stress. Varie sono le strategie di coping che una persona può utilizzare:
- Coping focalizzato sul problema. È la ricerca di soluzioni al problema (cercare informazioni, dividere il problema globale in elementi da affrontare poco alla volta, ecc..)
- Coping focalizzato sulle emozioni. È la ricerca del benessere a breve termine (se lavorare suscita emozioni negative, è preferito evitare la sensazione spiacevole e restare a casa).
In generale, entrambe le strategie possono essere adattive. Tuttavia, in ambito lavorativo, è più costruttivo cercare di risolvere il problema piuttosto che evitarlo. Un’ulteriore strategia adattiva è quella di ricerca del significato: un individuo che attui spesso questo meccanismo di coping tende a identificare nuovi significati nella situazione problematica e a rilevare eventuali aspetti positivi.
Cosa può fare il leader?
Per il mantenimento di una sana convivenza tra colleghi e della motivazione del gruppo di lavoro il leader non ha un ruolo secondario. Al contrario, egli può contribuire attivamente alla soddisfazione dei suoi sottoposti e al successo dell’organizzazione. Se dimostra di riconoscere e rispettare le norme del gruppo che gestisce ed è aperto al confronto, i suoi collaboratori saranno più coinvolti e offriranno prestazioni migliori. Questo, almeno, è quello che hanno trovato gli studi sulla leadership e sull’intelligenza sociale. Non tutti i leader sono socialmente intelligenti, ma quelli che mostrano di possedere questa capacità trasmettono entusiasmo e sono in grado di pianificare con il gruppo il raggiungimento di risultati. Non reagiscono catastroficamente di fronte alle prestazioni negative, ma mostrano empatia e supporto. Sono aperti alle opinioni e riescono a tenere alta la motivazione del team. Secondo lo psicologo Goleman simili abilità sono più importanti del Q.I. e le aziende che intendono promuovere una leadership efficace dovranno verificare la disponibilità dei loro dipendenti a migliorare questa capacità
Fonte
- Psicologia del lavoro e delle organizzazioni
F. Avallone (2011) - Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5). Raffaello Cortina Editore.
American Psychiatric Association (2014)