Perché i soldi hanno un valore economico? Come mai alcune particolari tematiche sono «tabù»? Perché gli insulti ci feriscono? Perché la società lo ha deciso. Tutta la realtà istituzionale è creata e mantenuta in esistenza da atti linguistici che hanno la stessa forma logica delle dichiarazioni: con una dichiarazione facciamo sì che esista una funzione di status, tale funzione di status esiste e continua ad esistere solo in virtù dell’intenzionalità collettiva che la riconosce.
IN BREVE
Indice
ATTI LINGUISTICI: COSA SONO
Coscienza, come funziona? Come mai l’uomo è un animale autocosciente rispetto ad altri che presentano un livello di consapevolezza limitato? Probabilmente il linguaggio ha contribuito a rendere Sapiens l’Homo. Se ci siamo evoluti dal punto di vista della coscienza è anche grazie al linguaggio che ha consentito di creare ed attribuire significati simbolici agli elementi della realtà, dai più concreti ai più astratti. Di conseguenza ci ha dato la possibilità di metterli in relazione tra loro, seguendo leggi tassonomiche di inclusione o esclusione, somiglianza, differenza… (gatto è gatto, ma è anche animale, felino, non è cane, anche se entrambi hanno quattro zampe…). La realtà per come la conosciamo è una fitta rete di significati che ciascuno di noi inizia a comprendere e ricostruire al livello mentale fin dalla nascita, sono le parole che ci consentono di crearla. L’abilità verbale altro non è che la traduzione «umana» dei processi cerebrali biochimici alla base del comportamento. Quando pensiamo ad un elemento della realtà, richiamiamo alla mente tutti i significati connessi: quando ricordiamo il nostro liceo, nella nostra mente si vanno a creare una serie di immagini ad esso connesse, ad esempio emozioni positive e negative, compagni di classe, docenti, materie… Questo processo non avviene solo in maniera astratta al livello mentale, ma anche concretamente a livello cerebrale. Nel sistema nervoso centrale vanno infatti a riattivarsi biochimicamente tutti i ricordi e le connessioni collegate all’elemento pensato, di conseguenza traduciamo tale attivazione nell’immagine mentale che siamo soliti descrivere «a parole».
Il linguaggio crea norme e convenzioni
La funzione linguistica non si limita a descrivere la realtà (ruolo raffigurativo), ma contribuisce anche a crearla (ruolo performativo). Connota le situazioni e le cataloga, ad esempio è differente il linguaggio che caratterizza una relazione del tipo mamma-bambino rispetto ad una del tipo dirigente-lavoratore. Le relazioni sociali sono fondate sullo scambio linguistico; siccome la nostra è una realtà sociale basata su regole comuni e condivise, il linguaggio contribuisce a creare la realtà normativa-sociale nella quale siamo immersi. Senza di esso non esisterebbero la società, i titoli, i gradi di parentela… sono tutte caratteristiche stabilite linguisticamente dall’uomo «a posteriori». Non sono naturali e non esistono «a prescindere». Senza il linguaggio non sussisterebbero, al contrario del mondo biologico che invece esisterebbe con o senza la funzione linguistica. Il linguaggio crea convenzioni e norme, ad esempio è stato deciso che i soldi sono un mezzo di scambio al di là della loro mera materialità; Trump è umano come tutti, ma gli è stata attribuita una determinata funzione per mezzo di un atto linguistico dichiarativo («la nomino presidente») a cui ha fatto seguito un riconoscimento comune della sua carica, da parte dei suoi sostenitori, ma anche da parte degli oppositori, difatti opporsi a qualcosa vuol dire riconoscerne il valore, altrimenti non sarebbe necessario opporvisi.
Come funziona il linguaggio?
Segue una distinzione in sintassi, semantica e pragmatica:
- Sintassi: è lo studio dei segni come tali, dei modi con cui le espressioni linguistiche possono essere combinate da un punto di vista strettamente grammaticale, che non tiene conto del loro significato. Stabilisce se una certa sequenza di segni è ben formata («c’è un ladro in biblioteca») o mal formata («un biblioteca in è ci ladro»);
- Semantica: si occupa del significato delle espressioni linguistiche – parole o frasi – al di fuori delle situazioni in cui vengono usate. Una frase potrebbe essere sintatticamente corretta, ma non semanticamente, se non è possibile coglierne il significato («c’è una biblioteca nel ladro»). Una frase dichiarativa ha come funzione principale quella di descrivere uno stato di cose del mondo. La frase sarà vera se tali cose sono effettivamente come la frase dice che siano, sarà falsa in caso contrario («c’è una biblioteca nel ladro» è una frase falsa). Conoscere il significato di una frase significa sapere come deve essere fatto il mondo perché tale frase sia vera (sapere in quali casi essa descrive correttamente il mondo e in quali casi no). So che non può esserci una biblioteca nel ladro perché nel mondo non è possibile che ce ne siano, quindi posso dire di conoscere il significato della frase «c’è una biblioteca nel ladro». Ad ogni frase si associano un insieme di condizioni di verità: le condizioni che il mondo deve soddisfare perché la frase ne costituisca una descrizione appropriata. Prendiamo d’esempio «c’è un ladro in biblioteca». La condizione di verità di «biblioteca»: stanza chiusa che contiene dei libri; Condizione di verità di «ladro»: individuo che commette furti;
- Pragmatica: studia la comunicazione. Mentre la sintassi studia l’apparato combinatorio delle espressioni di una lingua, e la semantica l’apparato interpretativo, la pragmatica si occupa di come un parlante si serve di entrambi in una particolare situazione comunicativa. Uno dei compiti della pragmatica è spiegare perché frasi, pur perfettamente ben formate dal punto di vista sintattico e semantico possono non essere appropriate in certi contesti d’uso, facciamo qualche esempio. Paolo: «Ciao sono Paolo. E tu?» – Francesca: «Io no» | Paolo: «Scusa, sai dov’è Piazza Duomo?» – Francesca: «Certo che lo so» | Paolo: «C’è un ladro in biblioteca!» – Francesca «Ah sì? Cosa sta leggendo?». In altre parole la pragmatica è la disciplina che si occupa del contesto, delle interazioni sociali e di ciò che il parlante comunica (al di là di ciò che dice). «La stessa frase – meglio, lo stesso contenuto proposizionale – può avere interpretazioni sorprendentemente differenti a seconda delle intenzioni con cui viene usata, e delle circostanze in cui viene proferita». «Sono cintura nera» suona come una minaccia per il potenziale aggressore di chi la proferisce, suona come rassicurazione se chi la proferisce ci sta accompagnando in un quartiere malfamato.
Enunciati descrittivi e atti linguistici performativi
Le parole sono il mezzo attraverso cui è possibile identificare e dare significato alle cose. Parole forti come «sesso» o «verginità» suonano importanti non perché lo siano, ma perché è stato dato loro un certo significato che richiama elementi socialmente riconosciuti come tabù. Le parole in un certo senso incanalano potere e lo attribuiscono agli oggetti. Per i lettori che hanno avuto il piacere di giocare a The Elder Scrolls V: Skyrim, Bethesda si è senza dubbio ispirata a questo concetto per l’ideazione del Thu’um utilizzato dal Sangue di Drago. Le parole non sono quindi semplici descrittrici della realtà, ma anche creatrici della stessa. Un enunciato descrittivo per l’appunto descrive uno stato di cose («il gatto è sul tappeto»), un enunciato performativo crea uno stato di cose («battezzo questa nave Queen Elizabeth»). Nella Bibbia troviamo un primo riferimento agli enunciati performativi: «Il Signore Iddio aveva già formato dalla terra tutti gli animali della campagna e tutti gli uccelli del cielo. Li condusse quindi da Adamo per vedere con quale nome li avrebbe chiamati; poiché il nome che egli avrebbe imposto ad ogni animale vivente, quello doveva essere il suo vero nome. Adamo dunque dette il nome ad ogni animale domestico, a tutti gli uccelli del cielo e ad ogni animale della campagna» [Genesi 2, 18-23]. Ha senso chiedersi se una frase descrittiva sia vera o falsa, ma non ha senso chiederselo nel caso della performative che si avverano nel momento in cui vengono proferite. Affinché queste ultime abbiano validità è necessario un pubblico che ne testimoni la performance e che la condivida. Gli atti performativi hanno senso solo in un contesto sociale. Piuttosto che «vero o falso» ci si può dunque chiedere se la performance sia riuscita oppure no (se l’enunciato è felice o infelice).
TEORIA DEGLI ATTI LINGUISTICI
La teoria degli atti linguistici sostiene la tesi generale secondo cui il proferimento di un enunciato equivale al compimento di un atto. Ogni dire è sempre anche un fare. Nel caso delle frasi performative non ci si limita a proferire un enunciato, ma si compie un vero e proprio atto di creazione, di battesimo, di nomina… Tuttavia, se ci si pensa, anche nel caso delle descrittive non ci limita a proferire l’enunciato, ma si compie l’atto: «Mi scuso» è una frase descrittiva, ciò non toglie che stia portando il soggetto a compiere un atto di scusa. Anche la semplice descrizione di una situazione è un «fare»: descrivere è un atto pratico. La parola è il mezzo attraverso cui ognuno di noi può agire nel mondo, ma attenzione, non tutti gli atti linguistici sono verbali. È possibile chiedere la parola semplicemente alzando la mano, supplicare qualcuno mettendosi in ginocchio… Non tutti i proferimenti verbali sono atti linguistici: quando cantiamo sotto la doccia o proviamo un microfono non compiamo propriamente un atto linguistico. Il fatto che una determinata azione sia un atto linguistico dipende dal contesto: posso inchinarmi per ringraziare qualcuno, ma posso inchinarmi semplicemente perché voglio allacciarmi le scarpe. Il contesto (sociale) è la prerogativa senza la quale gli atti linguistici non hanno significato. L’uomo è un animale sociale e la parola è il suo mezzo di comunicazione. È grazie alla parola che si sono evoluti i rapporti (e con essi il cervello) ed è grazie ai rapporti che si è evoluta la parola.
Perché a volte le parole fanno male?
Gli atti linguistici possono essere descritti sotto ciascuno di questi tre aspetti:
- Atto locutorio: è l’atto di dire qualcosa. Corrisponde al proferimento di un’espressione ben formata sintatticamente e dotata di significato;
- Atto illocutorio: rappresenta il modo in cui si proferisce e lo scopo con il quale lo si fa. Possiamo usare la condizione «Il gatto è sul tappeto» con diverse forze illocutorie: come affermazione, ordine, minaccia, promessa, avvertimento, invito… «il gatto è sul tappeto, se vuoi entra in sala e giocaci» (invito), «fallo andare via!» (ordine)… Austin, riprendendo Frege, parla di forza illocutoria identificando il modo in cui un enunciato è usato a prescindere dal suo significato. Ad esempio: «Il gatto è sul tappeto» (forza assertoria); «Il gatto è sul tappeto?» (forza interrogativa); «bada che il gatto sia sul tappeto» (forza imperativa)…
- Atto perlocutorio: rappresenta gli effetti e le conseguenze extralinguistiche (intenzionali o meno) degli atti linguistici. Il mio dire «il gatto è sul tappeto» ha come effetto estrinseco il fatto che il mio interlocutore si spaventi perché è affetto da fobia nei confronti dei gatti (atto perlocutorio non intenzionale). Gli atti perlocutori involontari sono piuttosto frequenti, specialmente quando la circostanza nella quale vengono proferiti è carica di tensione emotiva. Quando due persone sono sul punto di litigare è sufficiente una parola fuori posto per far scoppiare la bomba. A volte le parole fanno male perché suonano come una provocazione o un’offesa anche quando non le si proferisce con l’intenzione di essere accusatori. Ancora una volta la circostanza sociale impatta sull’interpretazione degli atti linguistici. Il fallimento dell’atto perlocutorio si verifica nei casi in cui il parlante, proferendo un certo enunciato, non riesce a produrre gli effetti voluti (obiettivi) oppure produce effetti non voluti (seguiti).
Atti linguistici: spiegazione ed esempi
Se è vero che gli atti linguistici hanno validità solo all’interno del contesto sociale, allora il contesto sociale ha il potere di renderli impotenti. Il re, proclamato tale, può essere deposto dal popolo se questo non ne riconosce più l’autorità. L’atto locutorio può fallire a causa di un lapsus, errori o difficoltà nel pronunciare le parole, ambiguità o vaghezza del senso o del riferimento. Ad esempio: alla domanda «come stai?» rispondo «mi sento demolarizzato», anziché «demoralizzato». Compio un atto locutorio difettoso o fallimentare (la portata del fallimento dipende da quello che l’interlocutore comprende comunque di quello che il parlante intendeva dire). L’atto illocutorio fallisce se affetto da infelicità, che può avere diversi gradi di gravità, fino al grado più alto che causa il vero e proprio fallimento dell’atto:
- Infelicità di tipo A: in questo caso l’atto fallisce completamente. È nullo e non avvenuto se proferito in seguito alla violazione di precise regole sociali. Una procedura convenzionale non è valida se non è usata in circostanze appropriate, ad esempio un professore senza nessuna autorità nomina due studenti marito e moglie: l’atto fallisce. Pensiamo al potenziale dell’infelicità di tipo A: se una legge non può essere varata perché alcune autorità statali ne bloccano la pubblicazione, la società nel suo insieme ha il potere di destituire tale autorità in modo tale da renderne nulla la parola. In questo modo la legge è libera da ostacoli di ogni tipo. Ovviamente abbiamo fatto un esempio estremamente semplicistico, ma ci fa capire come le persone autoritarie lo sono esclusivamente perché noi diamo loro questo status;
- Infelicità di tipo B: causata da difetti o da lacune nella procedura. Si tratta di esecuzioni improprie, ma in questo caso l’atto è compiuto, o quasi, a differenza delle infelicità di tipo A. Un esempio sono gli atti che fanno uso di formule errate: una celebrazione nuziale nella quale l’officiante pronuncia formule diverse da quelle previste dal rito del matrimonio. Renzo e Lucia non riescono a sposarsi nel capitolo VIII dei Promessi Sposi perché Lucia non riesce a pronunciare l’intera formula del matrimonio. Non si crea lo status se la formula che lo definisce non viene completata o viene pronunciata in modo scorretto;
- Infelicità di tipo Γ: provocata da abusi della procedura, infrazioni o insincerità. In questo caso l’atto è compiuto ma è «vuoto» o comunque viziato. «Mi congratulo con te» detto quando non si è affatto compiaciuti, anzi, persino contrariati. «Ti faccio le mie condoglianze» detto quando non sono davvero condivisi i sentimenti. L’atto è eseguito, non è nullo ma non è neanche sincero.
Atti linguistici: Searle
Gli atti linguistici sono il mezzo attraverso cui è possibile descrivere la realtà per come è, ma anche gli strumenti con cui è possibile plasmarla, attribuendo nuovi significati alle cose. Per citare John R. Searle: «se ad esempio, con un’asserzione miriamo a rappresentare la realtà, e quindi il linguaggio si adatta al mondo, con un ordine tendiamo invece a modificare la realtà, e quindi il mondo si adatta al linguaggio». Segue la tassonomia degli atti linguistici definita dallo stesso Searle:
- Atti assertivi: le cosiddette proposizioni apofantiche di Aristotele. Affermazioni, descrizioni, asserzioni, il cui scopo è rappresentare come sono le cose. Hanno una direzione di adattamento «verso il basso» o parola-a-mondo. Con un’asserzione il parlante fa in modo che le sue parole si adattino al mondo;
- Atti direttivi: ordini, comandi, richieste, divieti, il cui scopo è provare a far sì che altre persone facciano o non facciano delle cose. Hanno una direzione di adattamento «verso l’alto» o mondo-a-parola. Il parlante fa sì che il mondo si adatti alle sue parole grazie all’intervento del destinatario;
- Atti commissivi: promesse, voti, giuramenti, rifiuti, scommesse. Hanno lo scopo di impegnare il parlante nel compiere un’azione futura e che, come i direttivi, hanno direzione di adattamento mondo-a-parola o «verso l’alto». Il parlante si impegna a far sì che il mondo si adatti alle sue parole;
- Atti espressivi: scuse, ringraziamenti, congratulazioni… hanno lo scopo è esprimere sentimenti o atteggiamenti del parlante riguardo ad un certo stato di cose che nella maggior parte dei casi si presuppone esista già. Con un espressivo il parlante mira a far sì che le sue parole si adattino al mondo dei suoi sentimenti o sensazioni;
- Atti dichiarativi: dichiarazioni che procedono verso entrambe le direzioni di adattamento. Con le dichiarazioni facciamo sì che qualcosa accada dichiarando che accade. L’uso di un dichiarativo (sposare, battezzare, dichiarare guerra, licenziare…) è regolato da complesse istituzioni sociali e il parlante deve avere un determinato status giuridico o sociale per poter dichiarare. Sono la base del mondo sociale, vanno a creare funzioni di status. Ad esempio, dichiaro «questa è la mia casa». Mi rappresento come possessore dello status «proprietario della casa»: direzione di adattamento parola-a-mondo. Se gli altri accettano la mia rappresentazione, creo questo diritto, perché il diritto esiste solo se vi è accettazione collettiva (basti pensare all’entrata in vigore di una legge: essa viene riconosciuta solo dopo essere stata accettata dalla maggioranza): direzione di adattamento mondo-a-parola.
USARE LA PAROLA PER PLASMARE LA REALTÀ SOCIALE
Tutta la realtà istituzionale è creata e mantenuta in esistenza da atti linguistici (speech acts) che hanno la stessa forma logica delle dichiarazioni: con una dichiarazione facciamo sì che esista una funzione di status, ad esempio le leggi sono dichiarazioni di funzioni di status permanenti. Per questa ragione gli speech acts sono i protagonisti della creazione del mondo sociale. Senza il linguaggio non avremmo la realtà sociale (ma senza realtà sociale durante l’evoluzione dell’uomo non avremmo sviluppato neanche il linguaggio). Il linguaggio è la prima tra le istituzioni che consente di crearne altre in qualità di protoistituzione come fosse un cerimoniere. Tutti i fatti istituzionali sono costituiti mediante il linguaggio, senza eccezione, ma è particolarmente difficile vedere in azione il meccanismo di creazione dello status. Nuotiamo in un mare istituzionale senza rendercene conto.
Come si fa a svelare la realtà istituzionale? Il test più semplice per verificare se un atto è istituzionale è chiedersi se la sua esistenza implica poteri deontici, ovvero poteri come diritti, doveri, obblighi, richieste, autorizzazioni. Ci sono diritti e obblighi (non codificati) nell’amicizia e nelle feste private, così come ci sono diritti e obblighi (codificati) nella cittadinanza e nel lavoro. In tutti questi casi si parla di realtà sociali istituzionali. Seguono alcuni esempi di istituzioni tipiche e di realtà istituzionali:
- Istituzione dello stato: potere legislativo, potere esecutivo, potere giudiziario, potere militare…
- Istituzioni economiche: corporation industriali, società immobiliari, imprese d’affari…
- Istituzioni con finalità speciali: ospedali, scuole, università, sindacati, ristoranti, teatri, chiese…
- Istituzioni non codificate (soprattutto) informali e non strutturate: amicizia, famiglia, storie d’amore, festività…
- Attività professionali che non sono istituzioni ma contengono istituzioni: giurisprudenza, medicina, mondo accademico, teatro, commercio…
Creazione di fatti istituzionali
La formula generale per la creazione di fatti istituzionali è la creazione di una funzione di status, ovvero la creazione di una realtà che viene socialmente riconosciuta come esistente. Noi (o io) facciamo sì che con una dichiarazione esista la funzione di status Y. Questa formula generale può essere declinata in modi diversi. Tali modi corrispondono ad un’evoluzione concettuale e diventano via via più complessi:
- Tipo 1: il muro che diventa confine. Sviluppo di un fatto istituzionale a partire da fatti fisici non istituzionali. Dal punto di vista fisico, il muro non è altro che una fila di pietre. Nel momento in cui viene eretto per suddividere due territori, gli viene attribuita la funzione di status di muro, o confine. Non richiede alcuna forma di linguaggio scritto e nessuna regola generale. Le persone coinvolte impongono la funzione di status Y all’oggetto X nel contesto C senza che nulla venga esplicitato. Il capo branco mantiene la sua carica in funzione della propria struttura fisica e delle proprie azioni, non sono necessarie leggi scritte, l’importante è che gli altri membri del gruppo ne riconoscano l’autorità;
- Tipo 2: nel caso dell’uomo è più difficile diventare capi del gruppo. In questo caso, a differenza di quanto avviene con il confine, vi una regola effettiva: per ogni X, se X è il maggiore dei figli del re, allora X ha valore di re. La regola costitutiva deve necessariamente essere scritta? Non necessariamente. Searle ci dice che «la creazione e la conservazione della funzione di status non richiedono una forma di documentazione scritta anche se spesso una comunità userà altri indicatori di status come uno speciale copricapo, una corona o una specifica veste». A differenza degli altri animali, l’uomo non disprezza gli accessori;
- Tipo 3: ad esempio la creazione di una corporation. Questo caso richiede regole esplicite, una complessa struttura giuridica ed un linguaggio scritto (i testi di legge). Le leggi vigenti sono dichiarazioni permanenti. Fanno sì che, con una dichiarazione, una qualche entità che soddisfa certe condizioni possa costituire una corporation attraverso l’esecuzione di un’altra dichiarazione.
Vi sono atti linguistici indiretti e non, possiamo essere più o meno consapevoli di ciò che vanno a creare, ciò sui cui non si può discutere è la loro importanza nel plasmare le nostre vite. Viviamo in una realtà sociale istituzionale dalla quale non possiamo estraniarci per il semplice fatto di essere uomini. In quanto tali siamo in grado di relazionarci per mezzo della parola, il che ci rende estremamente potenti rispetto ad altri animali, ma anche incredibilmente succubi di noi stessi e delle regole che andiamo a creare. Se vi sono problemi di natura psicologica come i disturbi di personalità o simili, è anche causa della società nella quale viviamo e delle regole implicite o esplicite che ci impone. Invidia e gelosia ad esempio sono emozioni «sociali», nate in seguito alla nascita di significati simbolici come «capitano», «re» o «comandante». Chi non vorrebbe avere il potere di un imperatore? Che invidia… D’altro canto, se il linguaggio ha potenziato alcune delle nostre emozioni negative, ci ha anche reso ciò che siamo, ovvero potenti animali autocoscienti, in grado di ragionare sulla natura della vita stessa, scoprire le leggi dell’universo, rimanerne affascinati… Se vi dessero la possibilità di rinunciare agli atti linguistici promettendovi di non provare più emozioni spiacevoli come l’invidia, accettereste sapendo che con esse vi disfereste anche della possibilità di apprezzare l’arte, la musica, ecc…?
Fonte
- How to do things with words. Oxford university press.
Austin, J. L. (1975) - Making the social world: The structure of human civilization. Oxford University Press.
Searle, J. (2010) - Pragmatica del linguaggio. Gius. Laterza & Figli Spa.
Bianchi, C. (2011)