Le crisi di pianto sono negative in assoluto o possono farci star bene? Molte persone, in effetti, rivelano che dopo aver pianto si sentono in qualche modo meglio. Questo può accadere anche in psicoterapia, dove piangere aiuta a riconoscere aspetti di sé e dei problemi personali e a costruire una relazione con il terapeuta improntata alla fiducia e alla collaborazione. Nei prossimi paragrafi approfondiremo proprio quest’elemento, indagando anche alcune delle possibili cause degli episodi di pianto.
IN BREVE
Indice
LE CAUSE DELLE CRISI DI PIANTO
È provato che gli umani non sono i soli a piangere. La prole dei mammiferi piange – produce versi – subito dopo l’allontanamento della madre. Qualcosa di davvero simile avviene tra bambino e mamma, con l’aggiunta della produzione di lacrime. Questa espressione del pianto è esclusiva degli esseri umani e permane per tutta la vita, verificandosi in risposta a eventi emozionali significativi. Questi ultimi due aspetti rappresentano un’ulteriore differenza rispetto alle altre specie animali. Si ipotizza che a un certo punto della nostra evoluzione la secrezione di lacrime sia stata favorita dal vantaggio di segnalare silenziosamente – al contrario di quanto non avverrebbe con le vocalizzazioni – il proprio disagio a chi vogliamo vicino – la mamma o il caregiver – ma non a chi è evolutivamente pericoloso – sconosciuti, predatori. Sfortunatamente, non sempre le cose sono così semplici e capita di avere delle crisi di pianto, magari scatenate dal nervosismo, che ci fanno stare molto male. Nei prossimi paragrafi parliamo di alcune di queste situazioni problematiche.
Crisi di pianto durante il ciclo mestruale: un problema da non sottovalutare
Si stima che gli episodi di pianto siano frequenti nel periodo premestruale, per diminuire, fino a scomparire, dopo la fine delle mestruazioni. Si tratta di un dato interessante, considerato che circa l’1,80 % delle donne prima delle mestruazioni ha crisi di pianto, irritabilità, depressione o ansia. È il quadro tipico della sindrome disforica premestruale, i cui restanti sintomi sono:
- mancanza di interesse, energia e concentrazione
- alterazioni dell’appetito e del sonno
- tensione al seno, dolori articolari o muscolari, gonfiore o aumento del peso.
In un ipotetico spettro della gravità, il disturbo disforico premestruale è la condizione più seria, mentre sintomi più lievi dovrebbero far pensare alla sindrome premestruale. Le origine della malattia sono sconosciute, ma lo stress, i traumi e gli aspetti culturali legati alla sessualità femminile o ai ruoli di genere femminile aumentano il rischio di soffrirne. Viene trattato preferibilmente con la psicoterapia, oppure con gli antidepressivi.
Il pianto dei bambini
Le crisi di pianto dei bambini sono causate da diverse ragioni: un malanno, un desiderio insoddisfatto, crisi di pianto notturne dovute agli incubi o a interazioni negative con i caregiver. I bambini piangono quando si separano dai loro genitori. Ma nel caso dell’attaccamento insicuro ambivalente sono realmente inconsolabili, non solo quando si separano dal caregiver, ma anche quando questi torna per accudirli. Questo tipo di comportamento è determinato da scambi interattivi in cui il genitore si mostra poco disponibile o incoerente nelle risposte che dà al bambino, che sviluppa problemi di stima, inibizione e diventa vulnerabile ai disturbi affettivi. Anche i bambini delle donne affette da depressione piangono frequentemente, perché le loro mamme sono distaccate, non attente ai bisogni e poco responsive alle richieste. È una questione di rotture e riparazioni: le mamme non soddisfano l’esigenza di vicinanza del bimbo – rottura – e non provano nemmeno a compensare questa mancanza – non riparazione. I programmi di sostegno alla genitorialità offrono un valido aiuto, perché aumentano le emozioni positive del bambino e favoriscono le competenze dei genitori, potenzialmente i migliori caregiver di loro figlio.
Le emozioni in adolescenza
Nella lotta tra razionalità ed emozioni è bene che ci sia un equilibrio, ma in adolescenza c’è il primato delle emozioni. Questo ha un fondamento neurobiologico, perché l’ultima area del cervello a maturare, intorno ai 20 anni, è la corteccia prefrontale. Essa è importante perché:
- esercita il controllo delle emozioni e degli impulsi
- aiuta ad assumere il punto di vista degli altri
- anticipa le conseguenze delle azioni
Ben prima che queste funzioni siano mature, il sistema limbico è già operativo: esso è associato all’espressione delle emozioni, alla ricerca di attività intense e alle gratificazioni. L’assenza di controllo è alla base dei comportamenti rischiosi, e le emozioni intense e instabili dell’adolescenza rendono i ragazzi vulnerabili a crisi di pianto, ma anche all’assunzione di droghe e al suicidio. Non a caso è il periodo di massima insorgenza dei disturbi mentali, associati alla disfunzione della corteccia prefrontale e alla disregolazione emotiva. Alla luce di questi aspetti, è importante che un adolescente abbia rapporti sani e aperti con i propri genitori, poiché i conflitti e le incomprensioni aumentano il rischio di comportamenti negativi.
IL PIANTO IN PSICOTERAPIA
Le persone che vanno in psicoterapia, mediamente, piangono nel 14-21 % delle sedute. Ciò non ci sorprende e, anzi, ci aspetteremmo percentuali ancora più alte. Del resto andare da un terapeuta, in genere, significa portare all’attenzione di un esperto il proprio disagio, con le relative ripercussioni sulla vita quotidiana. Ma piangere di fronte al clinico è positivo o no? Probabilmente non esiste una risposta unica, ma bisogna sottolineare che non si tratta di un comportamento negativo in assoluto. Se intendiamo il pianto come una particolare forma di espressione delle emozioni, allora esso si rivelerà molto utile al paziente e al clinico, poiché determinerà la riduzione della tensione mentale e l’elaborazione emotiva. E se alcune esperienze interne sono difficilmente riproducibili a parole, allora piangere consentirà di manifestarle senza l’uso della parola. Non tutti sono in grado di piangere, o di farlo di fronte a qualsiasi persona. Nei prossimi paragrafi vedremo, allora, quali sono le caratteristiche della personalità associate al pianto in psicoterapia, ma soprattutto quelle associate al pianto come comportamento benefico.
Quando piangere è positivo
Da alcuni studi che hanno indagato come si sentano le persone dopo aver pianto è emerso che l’88.8 % dei partecipanti ha un miglioramento dell’umore, mentre in terapia circa la metà dei pazienti riporta un miglioramento del rapporto con il terapeuta. Non è detto che piangere ci faccia star meglio, e questo vale sia nello studio dello psicoterapeuta, sia in altri contesti. Per esempio, chi ha un forte senso di responsabilità sta peggio dopo aver pianto. Nei casi in cui ci sia una forte disregolazione delle emozioni – per esempio nei disturbi d’ansia o nelle crisi di pianto in gravidanza – o si soffra del disturbo borderline, i pianti sono frequenti al punto da diventare particolarmente disfunzionali. Al contrario, le persone energiche e più socievoli tendono a stare meglio. Ad ogni modo, è verosimile che le lacrime abbiano un significato personale per ognuno. Mediamente nelle sedute di psicoterapia le persone piangono una volta al mese. In che modo questo migliora il legame tra dottore e cliente? Sentirsi in un posto sicuro, al fianco di una persona fidata e supportiva, ha effetti sull’alleanza terapeutica.
L’alleanza tra il clinico e il paziente
Alcuni pazienti affermano che gli episodi di pianto hanno rafforzato il loro legame con il terapeuta. Per questa ragione è legittimo supporre che si tratti di eventi significativi che hanno avuto effetti sull’allenza terapeutica, ovvero su quella dimensione interpersonale in cui clinico e paziente stabiliscono un legame collaborativo, nonché un accordo sulle strategie e sugli obiettivi da raggiungere. Se dopo aver pianto il paziente si sente più teso o ancor più giù di morale, c’è ragione di credere che non sia stata stabilita una buona alleanza terapeutica: mancano un buon legame e la condivisione degli obiettivi. Al contrario, se il pianto è seguito da un’aumentata consapevolezza su di sé o sui problemi, le persone stanno meglio; se hanno raccontato un episodio molto personale e si sentono supportate, sviluppano maggiore fiducia nel terapeuta e sentono che stanno lavorando bene per il loro benessere. Questi effetti rendono il pianto una strategia benefica per stare meglio: esprimere sensazioni negative può aiutare a tollerarle e a sviluppare un più profondo senso di controllo. Peraltro, se determina una migliore conoscenza di sé e delle problematiche e dei sentimenti correlati al pianto, è plausibile che il percorso terapeutico del paziente stia procedendo molto bene.
Fonte
- The neurobiology of human crying
Clinical Autonomic Research - Patients’ crying experiences in psychotherapy: Relationship with the patient level of personality organization, clinician approach, and therapeutic alliance
Psychotherapy Theory Research Practice Training