La biomimesi nasce da un nuovo approccio all’innovazione, improntato al voler imparare piuttosto che imporre. In un mondo in cui il progresso sempre più rapido alimenta il nostro ego di specie dominante la natura ci ricorda la sua fine complessità e diventa la chiave di volta della prossima rivoluzione tecnologica.
IN BREVE
La natura è stata per millenni fonte di ispirazione per artisti e filosofi. In effetti come si potrebbe non apprezzare lo spettacolo che ci si para davanti quando siamo messi di fronte alla sua immensità. Lo stesso pensiero scientifico nasce dalla volontà di osservare e capire i meccanismi nascosti dell’enorme macchina che è il cosmo naturale. Lo sviluppo della tecnica però ha seguito una strada diversa, forte del suo intelletto l’uomo ha progettato strumenti che gli permettessero di porsi al di sopra del mondo che aveva intorno. Abbiamo costruito navi per solcare gli oceani, aerei per superare le montagne e palazzi che sfiorano il cielo. La contrapposizione è così forte che natura e tecnologia sono diventati uno il contrario dell’altro, ma è questo il modo giusto di pensare il mondo?
I principi della biomimesi
Un’idea relativamente nuova al riguardo è quella della biomimesi. La parola biomimesi viene dal greco e significa “imitazione della vita”; è una disciplina che studia i modelli e i processi rinvenuti in natura, per poterli copiare e utilizzare nell’avanzamento tecnologico al fine di migliorare la vita dell’uomo. Il dubbio che potrebbe sorgere spontaneo è: cosa possiamo imparare davvero? Non è certo facile vedere le connessioni tra un alveare e un grattacielo, o tra gli uccelli e l’energia eolica. I problemi della modernità sono semplicemente fuori scala rispetto alle soluzioni proposte dalla natura, o almeno lo sembrano. Questa domanda ignora però un punto fondamentale: Madre Natura è davvero un ottimo ingegnere. Sulla terra in questo momento si stima la presenza di 8.7 milioni di specie animali e vegetali, queste rappresentano meno dell’1% delle specie finora vissute sulla terra, per un totale stimato di 5 miliardi di specie, ognuna delle quali può vantare decine o centinaia di migliaia di individui, con una stima al ribasso. Non serve mettere mano alla calcolatrice per capire che si tratta di un numero colossale di esseri viventi, nati e morti su questa terra.
Mutazione e selezione naturale: la genialità delle soluzioni della natura
Perché ci interessa tutto questo? Quando una popolazione di una certa specie viene lasciata per molto tempo sola nel suo ambiente diventano evidenti due meccanismi importanti, la mutazione e la selezione naturale. La prima agisce modificando casualmente di tanto in tanto una caratteristica dell’individuo e la sua ricorrenza può essere rara, ma se si ha un numero abbastanza grande di elementi in una specie nel tempo accade un gran numero di volte. La selezione naturale invece ha il compito di valutare le mutazioni, se una di queste avvantaggia l’individuo nel suo ambiente è più facile che questo si riproduca e trasmetta la mutazione ai suoi figli, aumentando il numero di esemplari con quel tratto.
Un buon esempio è l’albinismo nei mammiferi, se una popolazione di volpi è costretta a vivere in un clima nevoso quelle che nascono con la pelliccia di colore più chiaro hanno un vantaggio nella mimetizzazione rispetto alle controparti dal pelo scuro, e vengono attaccate più raramente dai predatori. Le volpi con il manto bianco così sopravvivono più facilmente e trasmettono questa loro caratteristica ai cuccioli, aumentando il numero di volpi bianche in circolazione, per questo motivo le volpi rosse non sono diffuse nelle regioni artiche. Molti altri animali che abitano in ambienti quasi sempre innevati hanno sviluppato una pelliccia bianca, come le tigri siberiane.
Le mutazioni casuali e la selezione naturale sono i motori inarrestabili dell’evoluzione. Gli animali e le piante presenti oggi sul pianeta sono frutto di centinaia di millenni di evoluzione, sono i “sopravvissuti”, che hanno sviluppato le migliori strategie per vincere al grande gioco della vita, attraverso un lungo processo di trial and error. Così a noi non resta che raccogliere i risultati di questa sperimentazione ed applicarli nella maniera corretta, ecco di cosa si occupa la biomimesi.
Leonardo da Vinci: il pioniere della biomimesi
Viene ripensato completamente il rapporto tra tecnologia e natura, la seconda non è più un ostacolo da superare ma un modello a cui mirare utilizzando la prima come strumento. L’idea di voler imitare la natura non è un concetto nuovo, il precursore più antico ed illustre di questa scuola di pensiero è sicuramente Leonardo da Vinci, i suoi studi sulle macchine volanti sono liberamente ispirati dal volo degli uccelli, e dalla particolare forma dei semi di acero. Leonardo seguì già nel XV secolo un’intuizione che potrebbe sembrare banale, la natura conosce da prima di noi i segreti del volo, bisogna solo saperli decifrare e ricostruire.
Gli architetti ispirati dalla natura
Passeranno ancora 300 anni per arrivare al primo esempio di biomimesi in epoca moderna. È il 1851, l’architetto sir Joseph Paxton è intento nella progettazione di quello che sarà poi noto come Crystal Palace per la Grande Esposizione di Londra. Per ideare la struttura portante dell’edificio Paxton, che era botanico oltre che architetto, si rifece alle nervature delle foglie di una varietà tropicale di ninfea, la Victoria Amazonica, le quali possono sostenere tranquillamente il peso di una persona adulta.
Il Crystal Palace fu il primo ma non certo l’ultimo edifico ispirato a modelli naturali: la Torre Eiffel, il simbolo di Parigi costruito per l’Esposizione Universale del 1889, è il risultato dell’attentissimo studio che il paleontologo Hermann von Meyer fece sulle ossa e sull’articolazione del ginocchio. La disposizione delle travi è un’imitazione della struttura interna del femore, in questo modo sebbene il monumento sia completamente in metallo è estremamente leggero, 7.300 tonnellate per un’altezza di 320 metri, un modellino alto 30 centimetri dello stesso materiale peserebbe appena 7 grammi (poco più di una bustina di zucchero per intenderci).
Più recentemente per la costruzione dell’Eastgate Centre, nella città di Harare, Zimbabwe, l’architetto che si occupava del progetto, Mick Pearce ha deciso di ispirarsi ai nidi delle termiti africane. Questi insetti sociali nativi delle calde regioni dell’Africa continentale si sono ingegnati per risolvere un grosso problema, il surriscaldamento delle loro abitazioni: i nidi di termiti sono sostanzialmente delle torri di terra indurita, che possono raggiungere altezze di 9 metri, pienamente esposte al sole ed inclini ad accumulare calore nelle pareti di giorno e a dissiparlo rapidamente di notte, facendo oscillare le temperature da 3°C ai 42°C. Per evitare questa variabilità poco adatta alla vita le termiti hanno costruito qualcosa che ha dell’incredibile, un vero e proprio sistema di ventilazione che funziona passivamente, senza bisogno di corrente o altra energia.
L’aria che viene scaldata nei cunicoli più alti del nido sale verso l’alto e crea un vuoto all’interno, questo vuoto aspira aria dai canali costruiti in basso, che passano nel sottosuolo e si aprono all’esterno poco lontano dalla costruzione principale, in zone più basse e umide, dove l’aria è fresca. In questa maniera il nido è continuamente ventilato e la sua temperatura resta costante a 28°C. Pearce si accorse della genialità di questo sistema, e lo replicò nella costruzione dell’Eastgate Centre, il quale consuma per la ventilazione appena il 10% di un edificio della stessa dimensione raffreddato in maniera convenzionale.
Il velcro
Gli esempi non si limitano all’architettura, la tecnologia biomimetica più diffusa in assoluto è sicuramente il velcro. Brevettato nel 1955 dall’ingegnere svizzero George de Mestral, il velcro nasce dalla curiosità che l’inventore ebbe nei confronti dei fiori di Bardana (nome scientifico Actium Lappa), si dice che al ritorno da una passeggiata in campagna se li trovò attaccati alla giacca e decise di studiarli al microscopio, notando che la pianta presentava dei microscopici uncini rimasti avvinghiati ai peli del tessuto. Anni di progettazione dopo ecco che vide la luce il modello in nylon e poliestere che tutti ormai diamo per scontato.
Altri esempi di biomimesi
Si potrebbero fare molti altri esempi. La tuta del nuotatore olimpico Michael Phelps imita l’idrodinamica della pelle di squalo, le piume del gufo hanno ispirato delle ventole eoliche più silenziose, le spine del porcospino sono oggi studiate per possibili utilizzi nelle suture chirurgiche, l’impermeabilità delle foglie di loto è alla base delle superfici autopulenti e così via. Insomma, Madre Natura sussurra le soluzioni ai nostri problemi da molto tempo, ed era ora che cominciassimo ad ascoltare. La biomimesi come nuovo modo di innovare la tecnologia non solo ci suggerisce migliori strade da seguire, ma ci ricorda l’importanza di convivere con l’ambiente, e non al di sopra di esso. Dopotutto come disse Einstein: “Ogni cosa che puoi immaginare, la natura l’ha già creata”.
Fonte
- Biomimetics: its practice and theory
National Center for Biotechnology Information
- AskNature – innovation inspired by nature
AskNature