Fin dagli albori della civiltà l’uomo ha cercato modi per lasciare scritte le sue memorie. Dagli antichi romani fino all’invenzione di Laszlo Biro, ecco la storia di come è nata la penna a sfera.
IN BREVE
Anche lo strumento più semplice può avere alle spalle una storia travagliata. La usiamo tutti i giorni, è parte integrante delle nostre vite, siamo talmente abituati alla sua presenza da non accorgerci che, ogni volta che scriviamo con una biro, stiamo impugnando un piccolo gioiello di fisica. Dentro una penna a sfera c’è molto più di una bacchetta di plastica porta-inchiostro, soprattutto se pensiamo a quanti progressi scientifici e tecnologici ci sono voluti per raggiungerla. Dalle origini ai giorni nostri, ecco come è nata l’invenzione che dall’Argentina di metà Novecento ha colonizzato il mondo intero. In principio era lo stilus. Ok, so cosa state pensando. Davvero vogliamo arrivare alla biro passando per ogni singolo mezzo di scrittura a partire da bastoncini di duemila anni fa? La risposta è no, niente paura. Toccheremo solo quelle tappe che, in un modo o nell’altro, hanno segnato l’evoluzione della penna dai suoi protoantenati a oggi – e il primo passo è proprio lo stilus (o stylus) greco-romano.

A questi popoli va infatti il merito di aver prodotto la prima bacchetta in grado di reggere inchiostro, preferendo utilizzare prodotti vegetali o nerofumo (la fuliggine che si ottiene bruciando carbone) per tracciare segni grafici, invece di inciderli su un materiale malleabile. Sembra poco, ma per quanto irrilevante, questa differenza segna il passaggio dalla scrittura cuneiforme della Mesopotamia, che fra 5000 e 8000 anni fa diede alla luce le prime tavolette d’argilla incise, a una modalità di scrittura che è sostanzialmente rimasta invariata fino ai nostri giorni: l’applicazione di un materiale liquido o semisolido su un supporto. Inizialmente, i giunchi di fragmite (le cannucce che crescono sulle sponde dei fiumi e nelle paludi) furono adottati per spargere inchiostro grazie alla loro disponibilità e al fatto che, a seconda del taglio dato alla punta, potessero tracciare sia segni larghi che sottili. Tuttavia, i giunchi si consumavano in fretta, per cui la scelta degli scribi passò presto a stili ricavati da frammenti di corna e ossa animali, facilmente lavorabili ma molto più resistenti. Fra le rovine di Pompei, dunque risalenti alla fine del primo secolo d.C., sono state ritrovate anche penne forgiate in metallo.
Intorno al 500 d.C., mentre l’Europa andava incontro ai suoi secoli bui, si diffondeva uno strumento destinato a dominare la scrittura a mano per oltre mille anni: qualcuno notò che una penna d’oca poteva portare inchiostro, grazie al principio fisico della capillarità: la parte cava della penna (calamus) poteva contenere una piccola dose di liquido sufficientemente viscoso, che poco alla volta fluiva lungo la punta grazie alla forza di adesione delle sue molecole al contenitore e di coesione fra le molecole stesse. In questo modo era possibile scrivere più a lungo senza intingere la penna nell’inchiostro. In aggiunta, la cheratina che compone la struttura delle penne risultava essere più resistente del giunco vegetale, ma comunque più facile da intagliare a mano rispetto a ossa e metallo. Questo rendeva possibile creare punte più articolate, che ancora oggi rendono il tratto della penna d’oca molto più versatile rispetto alle biro industriali.

Il monopolio della penna d’oca come mezzo di scrittura sarebbe durato a lungo, fino al Settecento. Pur mantenendo lo stesso design e principio fisico, nel 1780 l’artigiano inglese Samuel Harrison cominciò a produrre penne in metallo, ma il principale difetto restava: per scrivere era sempre necessario avere a disposizione un calamaio, e la mancanza di un mezzo per distribuire uniformemente l’inchiostro rendeva le macchie un inconveniente fin troppo comune. È proprio per far fronte a questi due problemi che l’evoluzione della penna avrebbe portato alla biro odierna, ma prima mancano due passaggi.
In primis, la penna stilografica, nata nel 1883 dall’inventore Lewis Edson Waterman. Il funzionamento è molto semplice: si trattava di una penna a immersione in metallo, come quelle diffuse un secolo prima, ma con una riserva di inchiostro incorporata. Grazie a un canale sottile quanto un capello, il flusso di inchiostro sfruttava insieme gravità e capillarità per scorrere verso il basso mantenendo aderenza alla punta per evitare dispersioni involontarie. Originariamente la riserva di inchiostro doveva essere riempita manualmente con un contagocce, ma versioni successive della stilografica introdussero un meccanismo di carica automatica che sfruttava una sacchetta di inchiostro. Con qualche modifica nei materiali utilizzati, è la stessa penna a fontana che oggi si tiene per le grandi occasioni, magari personalizzata per renderla simbolo di un certo status quo. Ma c’è un solo problema: non può scrivere su materiali diversi dalla carta. Per trovare una soluzione a ciò, l’inventore americano John Loud propose nel 1888 la prima penna a sfera. Una piccola sfera di metallo inserita nell’estremità permetteva di distribuire una quantità uniforme di inchiostro anche su quei materiali, come pelle e legno, dove la punta della stilografica falliva miseramente. Un tappo posto in cima alla bacchetta permetteva usare l’aria per regolare il flusso di inchiostro: se il buco in alto era lasciato aperto l’aria poteva entrare e occupare lo spazio lasciato dall’inchiostro in uscita, mentre se il tappo era chiuso l’inchiostro restava bloccato all’’interno. Almeno in teoria. In pratica l’intuizione di Loud, pensata per marcare la pelle e ancora rudimentale, non venne sfruttata commercialmente e fu presto dimenticata. E pensare che sarebbe bastato pochissimo per perfezionarla. Ma per questo dobbiamo fare un salto a cinquant’anni dopo.

E finalmente arriviamo alla penna biro. Se vi siete mai chiesti quale sia il significato di questo nome, la risposta è semplice: non ce l’ha. Biro è semplicemente il cognome della coppia di fratelli, gli ungheresi Laszlo e Gyorgy Biro, che la brevettarono nel 1938. Tutto cominciò con Laszlo, giornalista, e la sua frustrazione con i soliti problemi delle stilografiche: troppe perdite d’inchiostro, troppo tempo passato a grattare via le macchie dai fogli. Il motivo di questi inconvenienti era proprio nell’inchiostro: le penne a fontana utilizzavano un preparato molto liquido, di consistenza acquosa, e quindi facile da spillare involontariamente. Allo stesso tempo, non potevano utilizzare inchiostri a più alta densità perché avrebbero ostruito il sottilissimo canale della punta.
In particolare, nella mente di Laszlo Biro c’era l’intenzione di usare l’inchiostro ad asciugatura rapida delle rotative, quello con cui vedeva stampare i giornali. Era un composto talmente viscoso da non lasciare sbavature nemmeno sotto i velocissimi rulli tipografici. Ma naturalmente, un inchiostro così denso richiedeva un nuovo tipo di penna. Per questo, Biro recuperò l’idea di John Loud, il prototipo di penna a sfera che nell’ultimo mezzo secolo era stato del tutto ignorato: un tubicino capillare con una pallina metallica dentro la punta poteva “spalmare” l’inchiostro senza sbavature, mentre il liquido scendeva naturalmente per gravità o, nei primi progetti, a spinta. Proprio così, le primissime biro possedevano un sistema di pressione meccanica per far scendere l’inchiostro. Fortunatamente questa poco pratica aggiunta si è persa nel tempo, mano a mano che il progresso tecnologico migliorava la qualità di inchiostro e componenti.

Però c’è una cosa che non torna. Non avevamo detto che la moderna biro viene dall’Argentina? Mentre i due fratelli depositavano brevetti in giro per l’Europa (in Ungheria, Svizzera e Gran Bretagna), i loro piani furono interrotti dallo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. I Biro erano di origine ebraica, quindi nel 1940 emigrarono in Argentina, dove i loro nomi furono naturalizzati nei più conosciuti Ladislao e Georg. Lì, insieme a Juan Jorge Meyne, un esperto che aveva intuito le potenzialità commerciali della penna, fondarono la società Birome (il nome deriva dalla fusione dei cognomi) e iniziarono la produzione in grande scala della loro invenzione. Se in Sudamerica la biro è ancora conosciuta come Birome è per questo motivo.
Manca un ultimo passaggio fra la scoperta di Laszlo Biro e la sua fama mondiale. Ad essere sinceri, per quanto rivoluzionarie, le prime Birome non scrivevano molto bene. Le penne si inceppavano spesso, e l’inchiostro tipografico era perfino troppo denso: era così viscoso che, una volta seccato, si poteva facilmente staccare dal foglio e riattaccare da altre parti, come un adesivo. Ma intanto l’invenzione cominciava a diffondersi, e sempre più scienziati si cimentavano alla ricerca di come migliorarla – per esempio, elaborando un inchiostro a base di glicole etilenico che non intasava la punta.

L’ultimo capitolo di questa storia porta il nome di un francese, il produttore di inchiostro Marcel Bich, ma che noi conosciamo semplicemente come Bic. Nel 1950 perfezionò la biro e iniziò a produrre le leggendarie penne Bic – anche se il classico design trasparente avrebbe fatto la sua comparsa otto anni più tardi. Anche se non è responsabile dell’invenzione, alla Bic va il merito di aver diffuso la biro in tutta Europa e Nordamerica, rendendola lo strumento di scrittura più popolare al mondo. Né Biro né Bich potevano immaginare cosa sarebbero diventate le loro penne, oggi sia materiale da cartoleria supereconomico che oggetto di lusso poco distante da un gioiello – esistono biro personalizzate placcate in oro o Swarovski, e a questa notizia siamo perplessi quanto voi. Ma che siate intramontabili aficionados della stilografica, cultori retrò della penna d’oca o amanti della semplicità nella penna a sfera, una cosa non si può negare: anche uno strumento semplice come la biro ha cambiato le nostre vite.
Fonte
- History of Writing Technologies
Brian Gabrial - The Ingenious Pen: American Writing Implements from the Eighteenth Century to the Twentieth
Maygene Daniels - Birome Ballpoint Pen Collection
American Society of Mechanical Engineers