È al centro di un dibattito politico che va avanti da anni. La cosiddetta teoria gender, o ideologia gender, è guardata con diffidenza da alcuni e speranza da altri. Vediamo di cosa si tratta veramente, a partire dalle sue origini sociologiche.
IN BREVE
Ne sentiamo parlare in continuazione – dal dibattito sulla validità di questa famigerata ideologia gender, alle sue implicazioni sociali, al sospetto verso la teoria gender a scuola -, e mai con abbastanza chiarezza. Ma se cercavate una definizione resterete delusi: non esiste una “teoria del gender”, almeno non nel senso di una formulazione precisa che può essere giusta o sbagliata. L’espressione indica in generale l’insieme di tutti quei rami di sociologia, antropologia e psicologia noti come gender studies, sviluppati a partire dagli anni ’50 intorno a un concetto fondamentale: il gender, o ruolo di genere.
È bene fare subito una precisazione: “teoria gender”, e soprattutto “ideologia gender”, non sono definizioni scientifiche. Si tratta di termini creati dal fronte conservatore e cristiano cattolico per indicare in generale le posizioni progressiste nel dibattito sui sessi. Secondo questo punto di vista, l’ideologia gender sarebbe una forma di pensiero che afferma l’uguaglianza completa fra maschi e femmine e mira a diffondere una “educazione gender” attraverso i media e l’insegnamento della teoria gender a scuola. Il mondo accademico – fra cui l’Associazione Italiana di Psicologia – si è espresso per chiarire l’inconsistenza del concetto di “ideologia gender” intesa come divulgazione di un pensiero distorto, bollandola come teoria complottista. Al contrario, ha affermato l’esistenza dei gender studies in molte discipline. Anche se l’espressione “teoria gender” è quindi una generalizzazione impropria, è giusto ricordare che i gender studies sono effettivamente teorie, versioni dei fatti supportate da studi e ricerche ma non accettate da tutti, e che talvolta possono presentare differenze fra di loro. Ad accomunarle è la distinzione fra gender e sesso.
Quello di gender è un concetto chiave della sociologia, coniato a metà del secolo scorso – Talcott Parsons è fra i primi a usarlo – e approfondito da correnti come i Cultural Studies di Birmingham e il ramo femminista della sociologia americana. Il termine indica l’insieme di convenzioni, comportamenti e abitudini comunemente attribuite ai due sessi in una certa società. In altre parole, sono i ruoli che una cultura assegna a uomini e donne. Non ha nessuna valenza biologica: i sessi sono e restano quello maschile e quello femminile. Il gender però definisce come maschi e femmine sono caratterizzati in un preciso contesto sociale.
Nella società occidentale del Novecento, per fare un esempio, l’uomo era legato all’idea di componente forte della coppia, colui a cui sono affidate le decisioni importanti, responsabile per gli altri membri della famiglia e con il compito di provvedere ai loro bisogni con il lavoro; la donna, al contrario, era relegata ai lavori domestici, a essere la parte debole ma affettuosa, per natura dipendente dagli altri ma portata per l’educazione dei bambini. A ciascun genere corrispondeva naturalmente un certo tipo di abbigliamento, un certo tipo di linguaggio, un certo tipo di interessi. Perfino un certo tipo di atteggiamenti ed emozioni.
Si tratta quindi di un concetto variabile, che implica cosa diverse a seconda della società presa in considerazione. L’esempio più chiaro ci è dato da come è cambiato il gender femminile nella mentalità occidentale: il ruolo della donna si è emancipato, può aspirare a ricoprire incarichi diversi, può vestire in maniera diversa – si pensi a quanto poteva scandalizzare il buon costume una donna in pantaloni, nemmeno troppi decenni fa. I gender europei di questo momento non sono gli stessi dei gender asiatici contemporanei, e probabilmente non saranno gli stessi dell’Europa fra un secolo.
Fondandosi su questo concetto, dunque, la teoria gender sottolinea come il ruolo di uomo e donna derivi dalla società e dalla cultura in cui si trova. Non nega i due sessi in senso fisiologico. E nemmeno afferma che tutti siano uguali o che chiunque possa liberamente inventarsi il proprio gender. Ma siccome il ruolo è una costruzione culturale, la teoria gender afferma che un individuo, se non riesce a identificarsi con le aspettative e le regole sociali del suo gender, può essere in grado di rompere queste regole. Non ha a che vedere né con l’identità sessuale, né con l’orientamento sessuale – questi sono corollari che riguardano sfere diverse e approfondiremo più avanti.
Pensiamo ai crossdresser, più comunemente chiamati “travestiti”: si tratta di individui che, per bisogno sociale o psicologico, si sentono a disagio nel dover sottostare a un certo codice di abbigliamento e per questo ne infrangono le norme comunemente accettate. Vedremo dunque uomini vestirsi con abiti socialmente definiti da donna, e viceversa donne vestirsi da uomo. Ovviamente bisogna distinguere da chi pratica il crossdressing solo per spettacolo o folklore, vale a dire drag queen e drag king, anche se si tratta comunque di una forma di comportamento transgender: un superamento dei confini socialmente imposti fra maschio e femmina, in termini di ruolo, comportamento, abbigliamento. Senza per questo riguardare identità o orientamento sessuale – un uomo crossdresser non è necessariamente gay, né si identifica sessualmente come donna. È solo questione di ruolo sociale.
Si è parlato di “disagio” per definire il bisogno di uscire dal proprio gender. Il termine scientificamente corretto è disforia di genere, una forma di angoscia e malessere psicologico dovuto al conflitto con il genere imposto, che può sfociare in gravi tendenze depressive. Si può parlare di disforia di genere per indicare non solo il contrasto fra il gender assegnato e percepito da un individuo, ma anche quello più radicale fra sesso biologico e sesso in cui ci si identifica. Entriamo così nell’ambito dell’identità sessuale.
Siamo in realtà già al di fuori della teoria gender, perché non stiamo considerando i ruoli sociali ma il vero e proprio sesso di nascita. È giusto comunque chiarire anche questo aspetto, visto che nel parlato i termini transgender e transessuale sono spesso confusi – l’aggettivo transgender viene usato come “termine ombrello” per includere entrambi, complicando il discorso. L’identità sessuale è la percezione fisica che si ha del proprio sesso. La maggior parte degli individui risulta essere cisessuale, ovvero uomini che si percepiscono uomini e donne che si percepiscono donne, ma una persona che sperimenta disforia di genere relativa al proprio sesso si identificherà fisicamente nel sesso opposto. Si parlerà in questo caso di transessualità – sia che essa sfoci o meno in modifiche del proprio corpo (transizione). Ancora una volta, l’orientamento sessuale non è contemplato. Per quanto raro, una persona transessuale può benissimo essere etero.
Un’ultima menzione va fatta proprio per l’orientamento sessuale. Come abbiamo visto, omosessualità, bisessualità, asessualità o altre tendenze più particolari (vedi alcune parafilie, oppure il fenomeno noto come orientamento sapiosessuale) riguardano solo in parte la teoria gender. L’orientamento indica semplicemente il sesso verso cui si prova attrazione, a prescindere dalla percezione che l’individuo ha di sé, del proprio ruolo o della propria identità. Credere che l’ideologia gender “promuova” l’omosessualità è semplicemente sbagliato.
Nonostante l’impegno del mondo scientifico a chiarire questi falsi preconcetti, la teoria gender è al centro del dibattito proprio a causa della confusione che c’è sull’argomento e delle approssimazioni strumentali da parte di entrambi i fronti – basti pensare alle bufale sulla presunta “educazione gender” obbligatoria nelle scuole, che riemergono ciclicamente. La divisione fra pro e contro sarebbe meno drastica se la questione non fosse ancora un tabù. E per superarlo, il primo passo è conoscere.
Fonte
- Gender Role Ideology (Voce:)
The Blackwell Encyclopedia of Sociology - AIP Position Statement
Associazione Italiana di Psicologia - What Is Gender Dysphoria?
American Psychiatric Association - Sociologia dei mass media
M. Sorice – Carocci