Sono molteplici i fattori che concorrono a renderci pazienti. Se da un lato può essere vista come un adattamento evolutivo, e dall’altro come un semplice errore logico, la pazienza ha origini molto più complesse. Eccone alcune.
IN BREVE
Una virtù nella cultura popolare, una grandissima incognita in psicologia e neuroscienze. Il problema della pazienza, intesa come la disposizione a sopportare un danno (o rinunciare a un guadagno) nel presente in vista di un vantaggio futuro, può essere analizzato da una varietà di punti di vista e discipline scientifiche, senza venirne realmente a capo. Che cosa ci porta ad essere pazienti? Che cosa a volere tutto subito? Lo studio del comportamento umano e dei suoi processi di decision-making ha evidenziato come compiere delle scelte sia una combinazione di fattori caratteriali, istintivi, logici ed emotivi. Vediamo in che modo siamo spinti a preferire l’attesa, e perché a volte aspettare diventa insopportabile.
La questione della pazienza è spinosa perché può essere eccessivamente generalizzata. E quando si generalizza si perde il focus su dettagli importanti. L’assunto di base è che, per natura, ogni animale (uomo compreso) tenda in maniera automatica a soddisfare i suoi bisogni nel minor tempo possibile. Questo perché la prospettiva di una ricompensa immediata risulta preferibile rispetto alla possibilità di un vantaggio futuro – anche quando tale vantaggio è assicurato. Insomma, non ci piace aspettare, in quanto significa lasciar perdere un’occasione reale, tangibile, che abbiamo davanti, in favore di un’ipotetica miglior soluzione in un altro momento. Ma benché questo paradigma sia pressoché universale per tutte le specie animali, esistono delle differenze attestate nel modo in cui alcune specie valutano ricompense presenti e future rispetto alle altre.
Uno studio di Jeffrey Stevens, Elizabeth Hallinan e Marc Hauser ha messo ha confronto i meccanismi decisionali di esemplari di Callithrix Jacchus (altrimenti noto come uistitì dai pennacchi bianchi) e Saguinus Oedipus (o tamarino edipo), primati del Nuovo Mondo evolutivamente molto vicini, analizzando in che modo si comportano le due specie di fronte a ricompense a lungo termine. Davanti a ciascun esemplare erano posti due apparecchi: attivare il primo forniva immediatamente due pellet di cibo, mentre il secondo ne rilasciava sei dopo un ritardo di alcuni secondi. Al primate era data la scelta se agire impulsivamente e accontentarsi di poco cibo o usare pazienza per un premio più grande. Basandosi su molte serie di test, e riadattando di volta in volta il ritardo del secondo apparecchio per renderlo ora più ora meno attraente, è stato possibile stabilire il punto di indifferenza di ogni singolo individuo, vale a dire il tempo d‘attesa limite oltre cui la ricompensa maggiore smetteva di essere preferibile rispetto al risultato immediato. E, mettendo insieme i dati di tutti gli esemplari, i ricercatori hanno tracciato la media di ciascuna specie – la media della loro pazienza biologica. Il verdetto?
La scimmia vede, la scimmia aspetta
L’esperimento ha mostrato che gli uistitì, in media, erano portati ad aspettare quasi il doppio di tempo rispetto ai tamarini – precisamente 14,4±1,5 secondi contro 7,9±0,6. I punti di indifferenza degli uistitì variavano da 10 fino a ben 19 secondi di attesa, mentre i cugini spaziavano fra 5,6 e 9,8 secondi. Persino lo uistitì più impulsivo, quindi, mostrava un maggiore autocontrollo del più paziente dei tamarini. Accertata la differenza nel comportamento fra le due specie, si apriva una nuova questione: perché? Le scimmie esaminate hanno una stretta parentela filogenetica e strutture biologiche estremamente simili. Presentano inoltre gli stessi sistemi di accoppiamento, dimensioni del gruppo, tendenze alla cooperazione e in generale un simile comportamento sociale. C’è un solo particolare che le distingue: il cibo.
Una cosa importante da notare è che tutti gli esemplari erano nati in cattività, dunque senza esperienza nel procacciarsi il cibo. Tuttavia, esiste una naturale differenza nella dieta delle due specie: gli uistitì si nutrono prevalentemente di linfa e gommoresina, prodotti ottenuti incidendo la corteccia degli alberi e aspettando che il liquido fluisca, mentre i tamarini ci cibano di insetti, la cui cattura richiede movimenti impulsivi. Il tipo di alimentazione, dunque, avrebbe influenzato la selezione naturale rispetto all’evoluzione dell’autocontrollo, rendendo gli uistitì mediamente più pazienti dei loro cugini. E anche quando cresciuti in allevamento, senza procurarsi da sé il cibo, i primati mantengono i tratti della loro specie. I diversi comportamenti hanno quindi radici biologiche, come adattamento alle condizioni che l’animale dovrebbe affrontare allo stato brado. In altre parole, la pazienza media di una specie è dettata dalla natura, come parte del suo processo di adattamento evolutivo.
L’uomo non fa eccezione. Anche per noi la soglia di autocontrollo media potrebbe derivare dalla nostra storia evolutiva – di cui l’alimentazione è solo uno dei molteplici fattori influenzanti. Ad ogni modo, si potrebbe giustamente obiettare che rispetto ai primati le persone si comportino in maniera molto meno istintiva e mettano in atto processi mentali che non derivano dalla semplice lotta per la sopravvivenza. Da un animale di maggiori facoltà intellettive come l’uomo ci aspetteremmo un comportamento più razionale e, di conseguenza, una migliore capacità di valutare i vantaggi futuri e predisposizione all’attesa. Ed è qui che sbagliamo. Per due motivi.
La pazienza del prigioniero
Tanto per cominciare, pazienza e ragione non vanno necessariamente d’accordo. Molte decisioni che prendiamo quotidianamente possono essere riportate a una valutazione delle probabilità – per esempio la scelta se andare o meno in spiaggia si basa sull’eventualità di una giornata di sole piuttosto che di pioggia, oppure la scelta di rimanere in attesa del proprio turno al telefono dipende da quante persone prevediamo abbiano chiamato nel nostro stesso momento. Siamo qui nell’ambito dell’economia comportamentale, dove lo studio delle decisioni si sposta sul versante della perfetta razionalità logica, immaginando che l’uomo adotti un modello di calcolo per venire a capo di situazioni che, alla fine, si possono tutte ridurre a problemi statistici. L’approccio matematico si costruisce sul solo principio del vantaggio personale – cosa che semplifica parecchio una questione altrimenti irrisolvibile. È uno stile di pensiero che diventa più evidente se entriamo nel campo matematico della teoria dei giochi, in cui (come nella realtà) le nostre decisioni logiche si trovano a fare i conti con quelle di altri esseri umani, potenziali alleati o potenziali avversari.
Prendiamo come esempio il dilemma del prigioniero: due criminali di una gang sono arrestati e chiusi in celle separate. Entrambi sono condannati a restare un anno in prigione per mancanza di prove più gravi, ma è offerto loro anche un accordo: a ciascun prigioniero è data la possibilità di rivelare i crimini dell’altro per scontare immediatamente la propria pena, mentre il compagno tradito vedrà la sua punizione aumentata a tre anni. In caso tutti e due decidano di tradire, invece, entrambi dovranno stare due anni in carcere. Ai fini del quesito si assume che i due prigionieri non abbiano particolari legami che li spingano alla lealtà nei confronti dell’altro. La soluzione? Confrontando i possibili danni e benefici portati da ciascuna opzione (tradire o tacere), la scelta matematicamente più vantaggiosa è anticipare l’avversario, quindi tradirlo subito. Il migliore e il peggior caso possibile rivelando i crimini del compagno (0 e 2 anni di prigionia) sono comunque preferibili al migliore e peggiore facendo silenzio (1 e 3 anni). L’approccio è puramente logico. E la soluzione puramente logica è pensare al proprio immediato vantaggio. Ma in che modo tutto questo è legato alla pazienza?
B tace | B tradisce | |
A tace | Entrambi scontano 1 anno | A sconta 3 anni B è libero |
A tradisce | A è libero B sconta 3 anni | Entrambi scontano 2 anni |
Da un lato, il dilemma è usato in economia comportamentale come modello di interazione sociale per quei momenti in cui (come spesso accade nella realtà) ci troviamo a prendere decisioni contemporaneamente ad altri individui, che possono essere alleati o avversari in potenza. Non solo, ma in cui il risultato dello scenario è contingente e legato alle azioni di altre persone, che a noi si presentano come un’incognita. Infatti, mentre immaginando di far ripetere più volte l’esperimento ai due prigionieri questi metterebbero in atto meccanismi di vendetta o cooperazione in base agli esiti precedenti, quando non si conoscono la scelta più vantaggiosa è anticipare l’avversario. Secondo la logica, in un panorama competitivo come la realtà, una mente impulsiva può prendersi subito l’opzione migliore, mentre la pazienza è dannosa.
Dall’altro lato, il dilemma del prigioniero ci interessa come paradosso: è infatti in grado di svelare un comune errore logico, che potremmo chiamare bias di altruismo. La prima reazione di fronte al problema è credere che sia nell’interesse di ciascun carcerato mantenere il segreto, in modo da uscire entrambi dopo un solo anno. Questo perché siamo portati a valutare la soluzione migliore sommando gli anni che i due prigionieri dovrebbero scontare per ciascun caso. Ma quella che otteniamo così è la migliore scelta per la coppia di prigionieri – non per ciascuno di loro. Eppure viene spontaneo cercare una soluzione che sia di vantaggio comune piuttosto che individuale. La mente umana tende a non essere logica, come invece implicato nell’approccio matematico.
Pazienza irrazionale
E veniamo così al secondo motivo per cui un uomo può essere meno paziente di uno uistitì: anche quando la scelta logica impone di aspettare, nella pratica non siamo in grado di prendere decisioni perfettamente razionali, sia perché non abbiamo risorse per farlo, sia perché altri fattori interferiscono ogni volta. È il motivo per cui, quando ad esempio siamo in preda a forti emozioni, commettiamo scelte impulsive, dannose o semplicemente stupide senza rendercene conto. Il pensiero segue un processo decisionale che in psicologia cognitiva è detto di razionalità limitata: le informazioni in nostro possesso, i limiti delle capacità mentali – magari dettati da uno stato d’animo che ci rende poco lucidi – o la velocità con cui dobbiamo prendere una decisione sono tutti fattori che influenzano le nostre scelte. Al punto che la decisione rigorosamente logica è solo un caso speciale dentro un insieme di soluzioni più o meno accettabili, di cui ci accontentiamo.
Solo così possiamo spiegare la pazienza, o altre capacità umane come l’empatia. Mentre, come abbiamo visto, un approccio istintivo porta ad aspettare solo lo stretto necessario per avere un guadagno e un approccio logico vede le variabili come un pericolo che si evita prendendo tutto subito, la nostra mente non segue né l’uno né l’altro. La forza di volontà per aspettare a lungo o per sopportare qualcosa in vista di una speranza futura è un comportamento che deriva da carattere, convinzioni, sentimenti. Che l’istinto e la logica non possono prevedere – e sono ciò che ci rende pazienti non solo per convenienza. Ma che, allo stesso tempo, costituiscono solo una variabile del processo cognitivo. Per cui sì, quando ti accorgi di non avere pazienza, puoi effettivamente dire che è (anche) colpa della natura.