I geni oncosoppressori sono particolari geni implicati nel controllo della crescita cellulare e nella riparazione dei danni del DNA. Sempre più studi suggeriscono che diventeranno i proncipali target della terapia anticancro.
IN BREVE
Indice
ONCOSOPPRESSORI: COSA SONO?
I geni oncosoppressori (o semplicemente oncosoppressori, in inglese tumor suppressor genes) sono particolari geni che hanno il compito di rallentare la crescita cellulare, riparare gli errori del DNA oppure dire alle cellule che hanno accumulato nel loro genoma troppi errori (anomalie) che è arrivato il momento di avviare il processo di morte (apoptosi o morte cellulare programmata, per gli addetti ai lavori). E quando sono gli oncosoppressori ad essere anomali? Beh, quando essi non funzionano correttamente, le cellule possono crescere fuori controllo, il che può portare all’insorgere di uno dei grandi nemici del nostro secolo: il cancro. La loro scoperta è da attribuirsi all’avvento delle cellule ibride utilizzate, dal 1960 in poi, come modello di studio della cancerogenesi.
Funzioni dei geni oncosoppressori
Gli oncosoppressori, o meglio, le proteine derivanti da essi, svolgono molteplici funzioni a livello cellulare.
Quest’ultime possono essere riassunte di seguito:
- Repressione di geni necessari a mandare avanti il ciclo cellulare. In particolare, se l’espressione di tali geni viene meno, la cellula sarà impossibilitata ad arrivare in mitosi;
- Interruzione del ciclo cellulare in caso di DNA danneggiato. Ciò serve ad impedire la divisione cellulare nel momento in cui all’interno della cellula è presente un errore a livello genetico che non è stato “riparato”. Nel momento in cui si provvederà alla correzione dell’anomalia, la cellula potrà continuare il ciclo;
- Innesco della morte cellulare programmata (apoptosi). Estrema ratio a cui si ricorre se no è possibile riparare il danno. Dunque, la cellula “incriminata”, e potenzialmente nociva, viene rimossa;
- Soppressione del processo di metastatizzazione.
UN PO’ DI STORIA: NASCITA DELLE TEORIE SUL CANCRO
Nel corso dei secoli la gravità e l’incomprensibilità della natura del cancro hanno continuamente stimolato la mente umana a cercare di spiegarne le origini, ricorrendo anche alle ipotesi più fantasiose. Raccontarle tutte, naturalmente, sarebbe lungo e tedioso ma qualche cenno potrebbe essere necessario in quanto, molte di queste teorie e scoperte, hanno fatto da trampolino di lancio all’individuazione del primo oncosoppressore. Il primo modello, il più antico e con la vita più lunga, risale a Ippocrate e riguarda i quattro umori presenti nel corpo: sangue, flegma, bile gialla e bile nera o atrabile. Galeno (129-210 d.C.) aveva perfezionato la teoria umorale attribuendo l’origine del cancro ad un eccesso di atrabile (bile nera, secondo Ippocrate), l’umore del temperamento melanconico. Infatti si sosteneva che fossero i soggetti affetti da depressione ad ammalarsi di cancro. I tumori, nell’accezione più vasta del termine, furono suddivisi in tre grandi gruppi: Tumores secundum naturam (aumenti di volume fisiologici, come lo sviluppo dell’utero durante la gravidanza o delle mammelle durante l’allattamento), supra naturam (dovuti a spostamenti di parti naturali, come nel caso di lussazioni o fratture), e praeter naturam (tutti gli altri, prodotti da parti non naturali, da tessuti nuovi o dall’accumulo di umori). In questi ultimi era compreso il cancro insieme ad una grande varietà di lesioni di natura non neoplastica.
La teoria umorale fu sostituita dalla teoria linfatica, formulata per la prima volta da René Descartes (1596-1650). Essa ebbe un immediato successo poiché la linfa poteva essere osservata ovunque nel corpo. Ci volle il 1855 per stabilire veramente di cosa si trattasse parlando di cancro (ovvero di una nuova formazione). Virchow coniò l’affermazione “omnis cellula e cellula” per indicare che ogni cellula derivava da una preesistente: ergo, anche i tumori, agglomerati cellulari, dovevano derivare da una cellula sana all’interno dell’organismo. Fu anche prospettata una teoria infettiva delle origini del cancro. Il contributo più importante a tale teoria teoria va attribuito a Peyton Rous (1879-1970) che, dal 1909, iniziò una serie di esperimenti evidenzianti che il sarcoma dei polli, sarcoma di Rous (RSV), poteva essere trasmesso da un animale all’altro mediante l’iniezione di un filtrato della neoplasia. Le ricerche sul virus del sarcoma di Rous ripresero dopo vari decenni presso il laboratorio di Renato Dulbecco, e furono condotte da Howard Temin. Nel 1970, insieme a Satoshi Mizutani, Temin identificò la trascrittasi inversa, l’enzima capace di sintetizzare DNA partendo dall’RNA. Scoperto così il modo di riproduzione dei retrovirus, restava da scoprire attraverso quali meccanismi si effettuasse la loro attività oncogena. Era stato evidenziato che il potere oncogeno di RSV era dovuto a un singolo gene denominato src (pronuncia sarc, abbreviazione di sarcoma). Prima dell’infezione, le cellule non avrebbero dovuto contenere nel loro genoma sequenze di DNA correlate al gene src, ma queste dovevano facilmente riscontrarsi dopo l’infezione perché apportate dal virus RSV. Non senza sorpresa, nel 1975 Harold Varmus e Michael Bishop, usando apposite sonde, osservarono invece che nelle cellule normali di molti animali, compresi i vertebrati, era presente un gene strettamente correlato a src, denominato c-src per distinguerlo da quello virale, v-src. Si pensò, pertanto, che il progenitore di RSV non contenesse v-src, come altri retrovirus attuali, e si moltiplicasse nei polli, come i suoi simili, senza trasformare le cellule. Fu nel corso di una delle sue incursioni in qualche cellula che catturò una copia del gene c-src incorporandola nel proprio genoma. Successivamente, questa copia andò incontro a mutazione, generando il nuovo gene virale v-src, che ha consentito a RSV di trasformare le cellule parassitate in successive incursioni. Pertanto, la cellula normale contiene un gene (c-src), denominato proto-oncogene, che ha la capacità potenziale di essere attivato in oncogene attraverso una mutazione.
Scoperta degli oncosoppressori
Alla scoperta degli oncogeni fece seguito quella dei geni oncosoppressori. Nel 1969, Henry Harris, professore di Medicina all’Università di Oxford, provò a fondere fisicamente una cellula tumorale con una normale (creando un ibridoma) per vedere quale dei due genomi prendesse il sopravvento. Egli osservò che veniva assunto il fenotipo normale, cioè gli alleli normali erano dominanti e quelli della cellula tumorale recessivi. Dunque le cellule normali possedevano geni deputati al controllo della crescita (cioè, con funzione opposta a quella degli oncogeni), la cui funzione era andata perduta nella cellula tumorale, probabilmente in seguito ad una mutazione. Allorché questi geni normali venivano introdotti (fusione cellulare) nella cellula neoplastica, esplicavano la loro funzione ripristinando il comportamento normale della cellula e, di fatto, sopprimevano il fenotipo tumorale (da ciò il nome di tumor suppressor genes, geni oncosoppressori).
L’ipotesi di Harris sull’esistenza di geni oncosoppressori fu confermata da Alfred Knudson all’inizio degli anni 1970 studiando i tempi di comparsa del retinoblastoma ereditario e sporadico. Knudson formulò la two hit hypothesis (a due colpi), secondo la quale entrambi gli alleli di un gene oncosoppressore (recessivo) devono essere inattivati affinché possa manifestarsi l’attività oncogena. La prima mutazione inattivante viene trasmessa attraverso la linea germinale, la seconda invece è di natura somatica. L’ipotesi di Knudson è stata confermata dalla scoperta, nel 1979, di una delezione in 13q14 nel cariotipo di un retinoblastoma che si rivelò, poi, comportare la perdita di un gene denominato RB. Nel 1983, fu evidenziato che il secondo evento determinava la perdita della seconda copia del gene RB ereditata intatta. Ciò significava che la prima mutazione (germinale) aveva lasciato una copia intatta del gene in grado di mantenere il controllo della crescita. Solo in seguito alla perdita del secondo gene (mutazione somatica) poteva iniziare la proliferazione neoplastica. Si è potuto anche constatare che esiste un’altra categoria di geni aventi, come i geni oncosoppressori, un ruolo nella patogenesi dei tumori familiari. Sono quelli addetti al mantenimento dell’integrità del genoma, condizione indispensabile per ridurre significativamente la frequenza d’insorgenza di mutazioni. Ciò significa che esistono due distinte classi di geni correlati allo sviluppo di neoplasie familiari. I geni oncosoppressori esercitano un controllo diretto sulle cellule, intervenendo su come esse devono proliferare, differenziarsi o morire. Essi sono anche chiamati gatekeepers per indicare che provvedono a consentire o non consentire l’entrata delle cellule nel ciclo cellulare che conduce alla divisione della cellula. I geni che mantengono l’integrità del genoma, invece, agiscono sulle cellule solo indirettamente poiché controllano la frequenza con cui esse vanno incontro a mutazioni. Sono anche denominati caretakers poiché si prendono cura di mantenere inalterato il genoma cellulare, provvedendo alla riparazione del danno al DNA.
QUALI SONO?
I principali geni oncosoppressori conosciuti sono:
- Gene RB: è stato il primo gene oncosoppressore ad essere identificato. La fosforilazione di pRb (la p davanti ad una proteina sta appunto ad indicare che è presente sotto forma fosforilata) risulta essere un evento chiave per la progressione del ciclo cellulare. La normale funzione di Rb, dunque, è di bloccare la cellula in uno stadio del ciclo cellulare prevenendone errate o dannose divisioni. Dunque, quando Rb è difettosa, alcune cellule mutate possono continuare a dividersi indisturbate dando origine ad una patologia tumorale.
- p53: La p53, identificata nel 1979 ed anche conosciuta come proteina tumorale 53 o “guardiano del genoma”, è un fattore di trascrizione che regola il ciclo cellulare e ricopre la funzione di soppressore tumorale. Deve il suo nome alla sua semplice massa molecolare: il suo peso, infatti, è di 53 kDa. Nel 1993 è stata eletta “molecola dell’anno” dalla rivista
- P16: p16, conosciuta anche come INK4a, è una proteina codificata dal gene CDKN2A, il quale codifica anche per la proteina p14 (o ARF). Appartiene alla famiglia delle CDKI, proteine che hanno la funzione di inibire l’azione delle chinasi dipendenti da ciclina (CDK), e quindi sono in grado di bloccare il ciclo cellulare ed impedire la mitosi. Per tali funzioni il gene per questa proteina è definito un oncosoppressore ed è infatti ritrovato mutato o down-regolato in vari fenomeni tumorali tra cui il cancro al fegato.
- PTEN: Il PTEN (Phosphatase and tensin homolog) è uno dei principali geni oncosoppressori del nostro corpo; quando lavora correttamente, aiuta a controllare il ciclo di vita delle cellule, quando non funziona a pieno ritmo, le cellule possono moltiplicarsi in modo incontrollato trasformandosi in formazioni tumorali. Le malattie causate dal malfunzionamento di questo gene sono rarissime (colpiscono 1 persona su 200.000), sono raggruppate sotto il nome di PHTS (Pten Hamartoma Tumor Syndrome) e comprendono: la sindrome di Bannan Riley Ruvalcaba, la sindrome di Cowden, la sindrome di Proteus-Like e la malattia di Lhermitte-Duclos. La principale preoccupazione clinica per le persone affette da PHTS riguarda l’alto rischio di patologie tumorali al seno, all’endometrio, alla tiroide, ai reni, al colon e di melanoma.
- BRCA1 e BRCA2: sono geni oncosoppressori codificanti per le rispettive proteine “proteina di suscettibilità al cancro della mammella tipo 1/2″. Mutazioni a livello di tali geni sono responsabili all’incirca del 505 dei tumori al seno ereditari.
ONCOSOPPRESSORI E CANCRO: DAI MICRO RNA ALLE NUOVE “TARGET THERAPIES”
La battaglia contro il cancro, negli ultimi anni di ricerca, ha varcato una nuova frontiera grazie alla scoperta dei micro RNA (miRNA). Essa avvenne nel 1993 grazie a Victor Ambros, Rosalind Lee e Rhonda Feinbaum in uno studio condotto su lin-4, un gene noto per il controllo esercitato sui tempi di sviluppo larvale di “C. elegans”. I micro RNA sono piccole molecole di RNA non codificante che modulano l’espressione di un terzo dei geni umani bersaglio. Poichè i miRNA partecipano a molte normali funzioni ci si è chiesto se anormalità nei miRNA potessero avere importanza in alcune malattie. Essi, infatti, possono agire sia da oncogeni che da oncosoppressori generando meccanismi sia di attivazione che di soppressione genica. Diversi studi, di recente, hanno corroborato la tesi secondo cui l’introduzione attraverso un vettore virale di questi piccoli frammenti di RNA nelle cellule tumorali potrebbe rappresentare una nuova linea di attacco contro il cancro. Non solo, alcune ricerche, si sono focalizzate sulla possibilità di sfruttare i microRNA per sviluppare un dosaggio a biomarcatore per una rapida diagnosi del cancro al polmone. Per quanto riguarda la target therapy essa interviene sugli oncogeni e sugli oncosoppressori alterati che promuovono lo sviluppo del tumore. Pioniere della terapia bersaglio fu lo sviluppo, agli inizi degli anni ’90, del primo inibitore della proteina tirosina chinasi, imatinib (Glivec®), che venne definito inizialmente il magic bullet, cioè il “proiettile magico” inteso come il farmaco perfetto. Questo inibitore è in grado di colpire selettivamente una proteina che si forma esclusivamente dalla traslocazione cromosomica che causa la leucemia mieloide cronica, il cromosoma Philadelphia. Imatinib induceva la remissione nell’80% dei pazienti. Il successo fu tale che altri farmaci vennero generati per colpire selettivamente bersagli iper-espressi nel tumore ma non dalle cellule sane. Su questa scia sono stati brevettati numerosi farmaci in grado di bersagliare specifici geni. L’ultima novità deriva dalla lotta al cancro al seno, altamente metastatico, triplo negativo e all’utero. L’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa) ha approvato l’utilizzo, infatti, nella pratica clinica di olaparib, una molecola della classe dei Parp-inibitori da utilizzare nel momento in cui si è di fronte a una donna affetta da una delle due malattie. Per poterlo somministrare, tuttavia, alla base deve esserci una mutazione dei geni Brca 1 e 2. Le prime evidenze di efficacia di olaparib hanno riguardato il tumore dell’ovaio. E, più nello specifico, le pazienti con una malattia più avanzata (allo stadio 3 o 4). Queste donne, dopo essersi sottoposte a un doppio ciclo di chemioterapia, in molti casi sviluppano una resistenza ai farmaci che ha finora rappresentato il principale ostacolo sulla via della guarigione. Ricorrendo ai Parp-inibitori, si è prima visto di poter andare oltre questo limite. Ma poi si è capito che, se somministrato fin dall’inizio, olaparib è più efficace nel ridurre il rischio di progressione della malattia nelle donne con un carcinoma ovarico indotto dalla mutazione dei geni Brca. Considerando la stretta affinità che riguarda le due malattie, in presenza di una mutazione dei geni Brca, l’efficacia di olaparib è stata valutata anche sul tumore al seno triplo negativo. Si è così visto che il ricorso alla molecola – al posto della chemioterapia – ha un impatto analogo a quello riscontrato sul tumore dell’ovaio: ridotto rischio di progressione della malattia e aumento del tasso di sopravvivenza.
Preso in considerazione quanto detto nel corso dell’articolo, la scoperta dei geni oncosoppressori, unitamente alla delucidazione del ruolo dei geni riparatori del danno al DNA, ha radicalmente cambiato il modo di concepire l’origine del cancro, facendo di questo una malattia genetica. Il paradigma genetico delle origini di tale malattia si è rivelato di grande utilità non solo da un punto di vista diagnostico, ma anche per classificare in maniera più appropriata le varie tipologie tumorali. Ha anche dato origine a una nuova forma di terapia, denominata terapia molecolare (o target therapy), che ha già contribuito a modificare significativamente la storia naturale di alcune neoplasie. La strada da percorrere, tuttavia, è ancora lunga ed irta di ostacoli anche se è verosimile che le numerose ricerche nel settore apporteranno nei prossimi anni le conoscenze necessarie per trovare terapie efficaci a questa patologia dimostrando che, la soluzione, potrebbe essere racchiusa nei nostri geni.
Fonte
- A History of Cancer Research: Tumor Suppressor Genes
Cold Spring Harbor Perspective in Biology - Tumor Suppressor Genes: New Prospects for Cancer Research
Journal of the National Cancer Institute