Ogni fobia è paura smisurata suscitata da un oggetto ansiogeno. Nel caso della talassofobia si tratta del mare. Ma c’è dell’altro? Effettivamente, tutte le paure più grandi nascondono un più profondo timore, quello di perdere il controllo, che porta a credere di non poter affrontare ciò che spaventa. Questo articolo cercherà di spiegare l’origine e i possibili rimedi al bisogno eccessivo di controllo, riferendosi anche agli altri disturbi psichiatrici in cui si presenta.
IN BREVE
Indice
COS’È LA TALASSOFOBIA? CAUSE, PROCESSI, SINTOMI
Il significato di talassofobia è paura del mare. Una persona che possa definirsi talassofobica è riluttante all’idea di fare un bagno nel mare, di entrare in acqua e ha l’esagerata paura di annegare. Non esiste una diagnosi di talassofobia, né sono stati condotti studi a riguardo. Il motivo è che ognuno di noi – in modi e grado differenti – ha specifiche paure che possono limitare la vita quotidiana. Per questo la classificazione attualmente utilizzata è quella di fobia specifica, che nel manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM) è inserita nei disturbi d’ansia. Con essa ci si riferisce alla “paura o ansia marcate verso un oggetto o situazione specifici (per es., volare, altezze, animali, ricevere un’iniezione, vedere il sangue) […] attivamente evitati, oppure sopportati con paura o ansia intense” (DSM V, 2013). Cosa determina la reazione di ansia? Tantissimi sono i meccanismi implicati, al punto che è impossibile trattarli tutti in poche righe. Ad ogni modo, quale che sia la fobia considerata, esistono dei processi psicobiosociali che sono comuni a tutte le fobie. Nei prossimi paragrafi approfondiremo alcuni di questi aspetti e ci focalizzeremo su un fattore che è coinvolto nell’esordio e nel mantenimento dei disturbi d’ansia – e non solo -, ovvero il bisogno di controllo.
Modelli interpretativi delle fobie
Alla luce dei tanti processi che intervengono nello sviluppo di una fobia specifica come la talassofobia, è impossibile individuare le cause esatte del disturbo. Tutt’al più si possono individuare i fattori che hanno aumentato la vulnerabilità al disturbo, per esempio con la ricostruzione di vita della persona da parte di uno psicoterapeuta. Esistono comunque dei modelli interpretativi da considerare, primo fra tutti quello psicoanalitico. Il concetto fondamentale secondo Freud è lo spostamento: un meccanismo di difesa atto a sostituire il reale oggetto della fobia – pulsioni sessuali o aggressive inaccettabili – con un oggetto esterno a esso collegato, come una sorta di depistaggio. Non trascurabile, poi, il ruolo dei genitori. L’attaccamento insicuro ambivalente (Bowlby, 1975) è un forte predittore di successivi problemi legati alla gestione dell’ansia ed è tipico di quei bambini che non trovano nelle loro figure parentali la giusta sintonizzazione e l’accoglimento dei bisogni emotivi. Bambini che, in virtù delle angosce esperite, hanno difficoltà ad esplorare autonomamente il mondo man mano che crescono. In contesti simili è possibile che i moniti dei genitori – del tipo “non toccare“, “attento, perché quel cane morde” siano sufficienti per lo sviluppo della fobia. Infine, in un’ottica comportamentista, la fobia di qualcosa è la conseguenza di un condizionamento classico: se un bambino, ogni volta che vede un topo, è esposto ad un forte rumore terrorizzante, svilupperà ben presto la paura dei topi.

Dalla paura al panico: neurobiologia dell’ansia
Chi è affetto da talassofobia non dovrebbe avere eccessivi problemi nella gestione di questa condizione: l’incontro con le acque del mare dovrebbe essere solo occasionale ed inoltre verrebbe evitato dalla persona. Ad esempio, l’invito di un amico a fare un bagno sarebbe rifiutato. Ad essere temuto non è il mare in sé, ma soprattutto le conseguenze catastrofiche che si immagina possano verificarsi a causa del contatto con esso: possono tornare alla mente vecchi episodi in cui la persona ha avuto veri e propri attacchi di panico a causa dello stimolo fobico. Conoscere la neurobiologia dell’ansia non esaurisce la spiegazione di cosa accade durante il panico, ma aiuta il paziente a capire cosa aspettarsi nelle situazioni che lo spaventano. L’ansia anticipatoria – ovvero, l’immaginare le conseguenze negative dell’incontro con il mare – fa sì che l’organismo diventi attento a un pericolo. Il rilascio di noradrenalina nel cervello cresce, così come la secrezione di cortisolo, finché non si diventa sempre più ansiosi e allarmati. Inoltre, quando l’ansia diventa particolarmente forte, è come se i centri cerebrali di controllo delle emozioni fossero spenti: è per questo che in una reazione di panico, ad esempio, alcuni possono scambiare la tachicardia e la sudorazione per i sintomi di un imminente infarto.
Perché l’ansia non va via?
Secondo la visione comportamentista alcuni comportamenti, tesi a ridurre l’ansia generata dallo stimolo fobico, finiscono invece con l’alimentare il disturbo e favorire la sua cronicizzazione. Già è stato detto che in questo modello una fobia specifica è il risultato di un condizionamento classico, ovvero dell’associazione tra uno stimolo neutro – come il mare – e uno stimolo incondizionato – dalla natura negativa, come il dolore provocato dalla puntura di una medusa. Se inizialmente è lo stimolo incondizionato a produrre la risposta di paura e fuga, successivamente anche lo stimolo neutro – che diventa condizionato – elicita le stesse sensazioni e risposte comportamentali. Si tratta di un tipo di apprendimento che determina profonde modificazioni strutturali in specifiche regioni cerebrali. Cosa è più naturale fare di fronte allo stimolo fonte di ansia? Fuggire subito da esso e, nelle successive occasioni, evitarlo come meglio si può. In entrambi i casi si tratta di comportamenti che inducono la fine dello stimolo sgradevole e che, quindi, è desiderabile ripetere in futuro. Nel paradigma del condizionamento operante questo fenomeno è noto come rinforzo negativo. La diretta conseguenza del rinforzo negativo è che nell’immediato protegge dalla paura, ma nel lungo periodo favorisce il mantenimento della fobia.
E SE PERDESSI IL CONTROLLO? PSICOLOGIA DELLA TALASSOFOBIA E NON SOLO
L’ansia anticipatoria porta con sé previsioni catastrofiche su cosa potrebbe accadere nella situazione temuta. In una persona che sia affetta da una qualche fobia possiamo ravvisare innanzitutto due fenomeni:
- La consapevolezza che l’ansia esperita sia eccessiva.
- L’incapacità di accettare che esistano possibilità – anche basse – che il pericolo e il danno immaginati si verifichino.
Questa persistente intolleranza al rischio, tuttavia, legittima lo stato di allarme del soggetto. Da qui nasce il bisogno di controllo, e cioè “la continua ricerca da parte del soggetto ansioso dell’illusione della certezza assoluta di poter impedire che si avverino tutte le possibilità negative da lui stesso costantemente temute e previste attraverso il monitoraggio e la manipolazione continui di alcuni aspetti e parametri della realtà esterna e/o interna (Ruggiero e Sassaroli, 2013)”. Il bisogno di controllo è un tema centrale per la psicoterapia cognitiva, sia per quanto riguarda l’indagine, sia per quanto riguarda il trattamento dei disturbi d’ansia come la talassofobia. Viene descritto come una particolare forma di doverizzazione, perché molti pazienti sentono letteralmente il dovere di controllare. Esso si caratterizza per:
- La percezione che il controllo che si ha della situazione sia insufficiente.
- La credenza che il controllo assoluto possa essere realmente raggiunto.
- La convinzione che si debba avere controllo a tutti i costi.
Nei prossimi paragrafi vedremo in quali altre psicopatologie possiamo riscontrare simili caratteristiche.

Gli evitamenti del paziente ansioso
Non solo fobie specifiche. Tra i disturbi che possono rendere difficoltosa la vita quotidiana e lo svolgimento delle normali attività ci sono il disturbo di panico, il disturbo d’ansia sociale e il disturbo d’ansia generalizzata. Non è questa la sezione opportuna per descrivere in dettaglio ognuna di queste condizioni. In breve, il riferimento sarà al generico paziente ansioso e alle caratteristiche comuni ai disturbi appena citati, come il bisogno di controllo e le varie forme in cui può manifestarsi. Nel paziente con panico l’attenzione è rivolta, innanzitutto, alle sensazioni fisiche: catastroficamente interpreta la tachicardia, la sudorazione o un dolore allo stomaco come segnali di un imminente attacco, per cui deve necessariamente monitorare il suo corpo. A un livello cognitivo, presenta la peculiare paura di perdere il controllo o, più specifica, di impazzire o morire. Coloro che presentano i sintomi dell’ansia sociale temono di fare una brutta figura e di essere giudicati: per questo devono monitorare ciò che dicono, le loro reazioni corporee – per esempio, se arrossiscono – e soprattutto le espressioni e gli atteggiamenti degli altri. Un sintomo comune sia al panico, sia all’ansia sociale – e così alle fobie specifiche come la talassofobia – è infine l’evitamento. L’evitamento di quel luogo in cui c’è molta gente pronta a giudicare; l’evitamento dell’ascensore in cui c’è stato il primo attacco di panico; l’evitamento del mare o degli altri stimoli temuti. Si tratta del comportamento estremo che permette di controllare le reazioni emotive e di proteggersi dall’ansia spiacevole. Tuttavia, come è stato spiegato, evitare ciò di cui si ha paura peggiora ulteriormente la portata del disturbo d’ansia.
Le compulsioni del paziente ossessivo
Praticamente a tutti passano per la mente, di tanto in tanto, dei pensieri intrusivi e irrazionali, per questo irrilevanti. E nessuno, più del paziente con disturbo ossessivo-compulsivo (DOC), è intollerante a questo tipo di attività mentale. Se il contenuto dei pensieri è particolarmente inaccettabile, essi produrranno ansia al punto da far precipitare la persona in un vortice di dubbi ossessivi. Per esempio:
- “E se fossi omosessuale?” – Dopo aver scambiato degli sguardi con una persona dello stesso sesso.
- “E se fossi un pedofilo?” – Dopo aver offerto una carezza alla propria bambina.
- “E se volessi suicidarmi?” – Dopo un evento che ha provocato tristezza.
Sono alcuni di quei pensieri irrazionali che, per il paziente ossessivo, diventano ossessioni a tutti gli effetti. Una delle parti integranti del DOC è, allora, la necessità di controllare la propria attività mentale. Le compulsioni sono al servizio di questo bisogno: sono azioni o atti mentali la cui ripetizione è fondamentale per il paziente, poiché gli consentono di neutralizzare l’ansia o di prevenire qualcosa di terribile. Così la persona che si interroga ossessivamente sul suo orientamento sessuale ripenserà alle precedenti relazioni eterosessuali per cercare conferme e sicurezza; chi teme di essere un pedofilo si accerterà ripetutamente che i bambini non gli provochino eccitazione sessuale, come in un “test”; l’ossessione del suicidio potrebbe spingere a guidare più lentamente per la paura di perdere il controllo e schiantarsi. Queste idee – come tante altre – possono rappresentare il contenuto di un’ossessione. In ognuno dei casi, è indubbio che sia proprio il controllo compulsivo a favorire il ritorno delle ossessioni: così come l’evitamento nella talassofobia, i “test” impediscono al paziente di tollerare e gestire le sensazioni spiacevoli.
Controllare il regime alimentare per controllare tutto: i disturbi alimentari
Il colloquio con una persona affetta da disturbi alimentari immediatamente rende evidente quanto il tema del controllo sia centrale. Quanto sia grande il desiderio di aumentarlo, su sé stessi e sulla realtà. Ma perché questo dovrebbe essere in relazione con il cibo e il peso? In pratica, il bisogno di tenere la propria vita sotto controllo si traduce nel rigido monitoraggio dell’assunzione di cibo e del peso corporeo. Molto spesso la paziente che soffra di anoressia nervosa o bulimia non è consapevole di questo. È la psicoterapia che può mettere in luce questo legame e, in primis, alcune idee sbagliate:
- Smettere di controllare il peso significa perdere l’autocontrollo.
- La perdita dell’autocontrollo è troppo grave da sopportare.
- La perdita dell’autocontrollo non ha rimedio.
- Non ci sono state occasioni passate in cui il paziente abbia perso il controllo.
In sintesi, è come se non esistessero dimensioni intermedie tra il controllo assoluto e la sua assenza. È molto difficile convincere le persone con un disturbo del comportamento alimentare a rinunciare al controllo compulsivo dell’assunzione di cibo e della forma corporea, perché ha delle ricadute sul loro livello di soddisfazione e sul loro valore percepito. Infatti man mano che la malattia avanza e i tentativi di controllare il peso hanno successo, l’autostima dei pazienti – generalmente bassa – aumenta. Tutto questo, d’altro canto, oscura i cambiamenti biologici e psicologici deleteri che si verificano e mettono a rischio la vita della persona.

Rinunciare al controllo e agli evitamenti
Secondo la psicoterapia cognitiva sono i pensieri negativi a generare gli stati d’animo spiacevoli come l’ansia. È necessario allora che tutte le idee disfunzionali del paziente legato al controllo vengano portate in superficie con uno sforzo attentivo sollecitato dallo psicoterapeuta. In caso contrario, resterebbero poco chiare o non conosciute. In caso contrario, le valutazioni negative continuerebbero ad essere considerate vere: è vero che “non posso sopportare le acque del mare”, è vero che “se entrassi in acqua succederebbe qualcosa di terribile” ecc. Un buon modo per indagare la catena di pensieri negativi è utilizzare la tecnica del laddering:
- “Cosa succederebbe se entrasse in acqua?“
- “E se perdesse il controllo?”
Sono le domande da cui si può partire. Le risposte saranno uniche e diverse a seconda del caso specifico, e le successive domande possono essere molto simili a queste, senza il timore di essere ripetitivi. L’obiettivo è quello di arrivare al nocciolo delle paure. Con gli evitamenti si procede in maniera analoga, nella consapevolezza che si tratta di comportamenti che si fanno non per un “perché”, ma per un “affinché non”:
- “Cosa potrebbe accadere se non evitasse di entrare in acqua?”
Solo successivamente si può disputare, gentilmente. Vuol dire mettere in discussione, gentilmente, le convinzioni irrazionali del paziente, attaccando il loro fondamento logico.
- “A cosa le serve credere a queste idee?”
- “Quali prove ha che sia davvero così?”
- “È mai successo in precedenza?”
In fondo, si tratta di sviluppare le capacità critiche della persona in preda al panico per la sua fobia.
Fonte
- Il colloquio in psicoterapia cognitiva
G.M. Ruggiero, S. Sassaroli (2013) - Manuale di psichiatria
A. Siracusano (2014)