La malattia di Alzheimer, o morbo di Alzheimer, è la demenza senile più diffusa, anche se in rari casi compare intorno ai 50 anni. La perdita di memoria è il principale segno, ma la progressione della neurodegenerazione interessa tante facoltà mentali finché il malato non sa più riconoscere i volti e comunicare. Parte della malattia è anche il cambiamento della vita dei familiari del paziente, che richiede una continua e faticosa assistenza.
IN BREVE
Indice
L’ALZHEIMER PORTA VIA FUNZIONI MENTALI E AUTONOMIA ALL’ANZIANO
A inizio Novecento solo l’1 % della popolazione aveva più di 65 anni. Oggi le percentuali sono più elevate e toccheranno il 20 % nel 2050. L’aumento dell’aspettativa di vita è un evento desiderabile, tuttavia ha reso rilevante la necessità di fronteggiare le malattie dell’invecchiamento, in primis le demenze senili. Tre aspetti le contraddistinguono:
- sono associate alla neurodegenerazione, ovvero la morte delle cellule cerebrali
- comportano il declino progressivo delle facoltà cognitive
- colpiscono soprattutto in età avanzata
Numeri alla mano, la demenza senile affligge l’8 % degli ultrasessantacinquenni, mentre la percentuale sale al 25 % dopo gli ottanta anni. In Italia riguarda un milione di persone, e in circa la metà dei casi si tratta della malattia di Alzheimer. Fu lo psichiatra Emil Kraepelin a parlare per la prima volta di morbo di Alzheimer, nel suo trattato di psichiatria del 1910. La malattia prende il nome dallo psichiatra che per primo la descrisse nel 1906, Alois Alzheimer. Ebbe in cura una donna di mezza età, che presentava perdite di memoria, allucinazioni e disorientamento. La paziente morì l’anno dopo, e l’autopsia post-mortem rivelò una vistosa diminuzione della materia grigia cerebrale, tipica di un caso di demenza senile.
Il primo segnale: la perdita della memoria
Comunemente, la malattia procura evidenti disturbi della memoria ed infatti la maggior parte dei pazienti giunge all’attenzione clinica a causa del disagio creato da una certa difficoltà a ricordare:
- i nomi delle persone e degli oggetti
- dove le cose sono riposte
- gli appuntamenti
- gli eventi del passato, personali e non.
All’inizio l’Alzheimer offusca i ricordi relativi a cosa è stato fatto durante il giorno o agli impegni presi per il futuro – memoria anterograda –, e con la progressione lenta della malattia anche i ricordi del passato vengono cancellati – memoria retrograda. Quasi la totalità delle persone affette ha un disturbo del linguaggio, che risulta nella produzione di un eloquio poco comprensibile e impoverito, causato dal danno all’emisfero cerebrale sinistro. Da menzionare, poi:
- l’aprassia, ovvero errori nei gesti abituali (il paziente indossa i calzini sulle scarpe, è incapace di preparare la caffettiera ecc.)
- l’agnosia, ovvero l’incapacità di riconoscere oggetti e volti.
La progressione della demenza renderà il malato sempre più dipendente dai familiari.
I sintomi psichiatrici sono quelli più problematici
In termini di disagio non sono secondari i sintomi psichiatrici che la malattia di Alzheimer procura, sopratutto in fase avanzata. Il più frequente è l’apatia. Si manifesta con l’appiattimento e la riduzione delle risposte emozionali all’inizio della malattia, e con la mancanza di iniziativa e di igiene personale nelle fasi successive. In genere, l’apatia si associa alla mancata consapevolezza di essere malati – anosognosia – e nella metà dei casi è accompagnata da sintomi di depressione, quali l’irritabilità, il ritiro sociale e la faticabilità. La depressione è una risposta emotiva normale alla diagnosi di morbo di Alzheimer? Potrebbe, ma quando la neurodegenerazione raggiunge le aree cerebrali del controllo emotivo e le facoltà mentali sono compromesse, la depressione è biologicamente indotta. I sintomi psicotici sono ancor più invalidanti e difficili da arginare per chi vive con il malato. In particolare:
- deliri persecutori (“stanno tutti parlando di me”; “sto per essere derubato”)
- falsi riconoscimenti deliranti (convinzione errata di non essere a casa ecc.)
- allucinazioni visive, molto articolate e complesse.
Problematica è anche la gestione dell’aggressività dei pazienti. Essa può dipendere dal decadimento mentale, da altre condizioni (depressione, dolore) e da relazioni disfunzionali con l’ambiente.
A volte è difficile riconoscere l’Alzheimer
Quella del morbo di Alzheimer è una diagnosi probabile, nel senso che solo l’esame autoptico post-mortem può rivelarne la presenza certa. In effetti, talvolta gli esami autoptici hanno consentito di trovare un riscontro neuropatologico tipico della malattia di Alzheimer a manifestazioni cliniche altrimenti non riconosciute come tali. Le forme atipiche identificate sono:
- Alzheimer ad esordio linguistico o afasia primaria progressiva variante logopenica (APPvl). I discorsi di questi pazienti hanno molte pause, per la difficoltà di nominare correttamente le cose (deficit di denominazione) e di richiamare le parole (anomie). L’esordio dei disturbi della memoria avviene solo 2-8 anni dopo.
- Alzheimer ad esordio visuo-spaziale o atrofia corticale posteriore (ACP). I sintomi sono il peggioramento della visione e delle funzioni visuo-spaziali e segni della sindrome di Balint-Holmes, quali la simultagnosia, l’atassia ottica e l’aprassia dello sguardo. I disturbi della memoria compaiono dopo 1-3 anni.
- Alzheimer ad esordio comportamentale o variante frontale. Forma atipica molto rara e difficile da identificare. Le sue caratteristiche sono la disinibizione, l’apatia e le competenze sociali ridotte.
Diagnosi precoce, è possibile? Il caso del MCI
La diagnosi è possibile solo se il paziente svolge dei test neuropsicologici. In più l’esecuzione di TAC e risonanza magnetica serve ad identificare l’atrofia cerebrale tipica della malattia, indice della morte dei neuroni. Esistono possibilità di riconoscere in tempo la malattia? Sì, ma è bene prestare attenzione ai campanelli d’allarme. Uno di questi è l’esordio, in età avanzata, del deterioramento cognitivo lieve (MCI, Mild Cognitive Impairment). Secondo il gruppo del medico Ronald Petersen le sue caratteristiche sono:
- uno stato peggiore dell’anzianità normale, ma migliore della demenza
- funzionamento cognitivo in declino
- una pressoché intatta capacità di svolgere le azioni quotidiane
Di nuovo, solo i test neuropsicologici possono aiutare a riconoscere questa condizione che entro 2-3 anni può diventare demenza e, potenzialmente, morbo di Alzheimer. Il rischio riguarderebbe soprattutto i pazienti affetti dal MCI amnesico, ovvero caratterizzato dal peggioramento soltanto della memoria. Individuare prontamente il MCI amnesico potrebbe rallentare il decorso dell’Alzheimer e così il suo peggioramento.
CAUSE DEL MORBO DI ALZHEIMER, ANCORA MOLTO DA SCOPRIRE
È difficile stabilire quale sia la causa dell’Alzheimer. Bisogna considerare fattori di diversa natura, a partire da quelli familiari e genetici. Avere un parente malato aumenta fino a cinque volte il rischio di soffrire della patologia, così come la presenza, sul cromosoma 19, della variante ε4 del gene responsabile della trascrizione dell’ApoE (apolipoproteina E). Si tratta dei fattori di rischio riferiti all’Alzheimer per come descritto fin ora, non necessariamente ereditario e con manifestazione dopo i 65 anni – forma sporadica. In altri casi, l’1-2 % del totale, l’esordio si verifica prima o molto prima, intorno ai 50 anni – morbo di Alzheimer precoce. Si tratta di forme ereditarie familiari causate dalla trasmissione genetica mendeliana delle mutazioni dei seguenti geni:
- APP, responsabile della trascrizione della APP (proteina precursore dell’amiloide)
- PSEN1, responsabile della trascrizione della proteina presenilina 1
- PSEN2, responsabile della trascrizione della proteina presenilina 2
PSEN1 e 2 svolgono un ruolo nell’attività della gamma secretasi, l’enzima che agisce sulla APP per la formazione del peptide beta-amiloide (Aβ). L’effetto complessivo delle mutazioni è l’accumulo eccessivo della Aβ e quindi la formazione diffusa di placche proteiche amiloidi nel cervello, che si suppone abbiano un effetto fatale per i neuroni. L’accumulo dannoso della Aβ riguarda anche le forme sporadiche, in cui è causato presumibilmente da meccanismi di degradazione difettosi.
Il cervello muore lentamente
Non si sa se le placche amiloidi siano causa o effetto dell’Alzheimer. In età avanzata, peraltro, possono trovarsi pure nel cervello normale, senza determinare problemi. La loro formazione negli spazi extracellulari, già 15-20 anni prima dei sintomi, è diffusa e induce la morte dei neuroni. A seguire la degenerazione neurofibrillare, correlata al declino cognitivo e caratterizzata da due meccanismi patogeni: l’accumulo in filamenti elicoidali di proteine tau, nel citoplasma dei neuroni, e la loro iperfosforilazione. Tra le conseguenze, il danno alle vie di connessione con gli altri neuroni e la morte della cellula. Questo fenomeno origina nel lobo temporale e interessa la corteccia entorinale e l’ippocampo, coinvolti nell’apprendimento e nell’immagazzinamento di informazioni nuove. Ciò spiegherebbe gli iniziali disturbi della memoria anterograda tipici dell’Alzheimer, o anche del MCI amnesico. Sulla base delle connessioni esistenti nel cervello, si pensa che la neurodegenerazione si diffonda dal lobo temporale alla corteccia cingolata posteriore (CCP) e poi in numerose aree, come i lobi frontali. Questa progressione spiegherebbe il graduale peggioramento della memoria e il declino delle funzioni esecutive.
Genetica, stile di vita e lucidità: proteggersi dalla malattia
I fattori di rischio, così come quelli di protezione, influenzano le manifestazioni e il decorso della malattia. Una prima influenza, già discussa, è quella genetica, ma ovviamente anche l’età avanzata è da considerare. Tra gli altri fattori:
- sesso femminile, perché il calo degli estrogeni dopo la menopausa favorirebbe la neurodegenerazione
- obesità, a causa dell’interazione fra processi ormonali, metabolici e infiammatori
- diabete tipo II
- ipercolesterolemia, perché facilita l’accumulo di Aβ, specie in presenza della variante ε4 dell’ApoE.
Lo stile di vita sano, così come le relazioni sociali e l’allenamento della mente, invece, riducono questo rischio. Ma ancor più importante nella prevenzione del morbo di Alzheimer è la riserva cognitiva. Essa viene accumulata con una buona occupazione e un buon livello di scolarità, oltre che con uno stile di vita sano nel tempo libero. In pratica, consente di ottimizzare le risorse cognitive e neuronali disponibili in presenza di danno o malattia. In base agli studi effettuati, sappiamo che la riserva cognitiva protegge dall’Alzheimer e, in caso di sviluppo, ne rallenta la manifestazione. Tuttavia, non ha alcun potere contro il rapido peggioramento dei sintomi.
LE CAPACITÀ PERSE GIORNO DOPO GIORNO
Entriamo nel dettaglio dei sintomi del morbo di Alzheimer nella vita quotidiana, fornendo possibili interpretazioni per la loro comprensione. In questo senso un grande contributo arriva dalla neuropsicologia, la quale indaga le basi neurali dei processi cognitivi normali e patologici e i meccanismi che controllano le funzioni mentali. Del resto, il parere neuropsicologico e lo svolgimento di test neuropsicologici sono fondamentali per riconoscere la demenza. Nella maggioranza dei casi, il disturbo della memoria è il primo passo verso la consultazione. Sebbene esistano delle forme atipiche, in genere la malattia interessa per primo il lobo temporale. Man mano che la neurodegenerazione si diffonde alle aree parietali, occipitali e frontali, danneggerà molte altre funzioni. Facendo riferimento a un tipo di progressione “standard” dell’Alzheimer, la lesione dell’emisfero sinistro causerà i disturbi del linguaggio e, con l’interessamento successivo dell’emisfero destro, compariranno sintomi come il disorientamento, l’aprassia dell’abbigliamento e la prosopoagnosia.
Memoria
All’inizio il disturbo riguarda la memoria episodica, relativa agli eventi vissuti personalmente e definiti nello spazio e nel tempo, ed è anterogrado. Per il paziente è difficile ricordare gli eventi che si sono verificati dopo l’insorgenza della malattia e, pertanto, dimentica cosa ha fatto durante il giorno e ciò che si è proposto di fare nel futuro (memoria prospettica). Solo successivamente l’oblio si estende alla memoria retrograda, il malato diventa confuso sul suo passato o “materializza” nel presente persone e eventi personali passati (memoria autobiografica). Anche la memoria semantica sarà compromessa. Il danno a questo magazzino, che contiene le conoscenze sul mondo e sulle parole, produce deficit di denominazione, anomie e, talvolta, la titubanza cognitiva. Si tratta di un atteggiamento incerto mostrato dai pazienti nelle situazioni quotidiane, in cui si sentono disorientati (non sanno dire quanto costi il giornale o una bottiglia di acqua ecc.). Secondo una delle interpretazioni fornite, la lesione delle strutture temporali associate ai ricordi causerebbe le perdite di memoria. All’inizio esse sono minimizzate da uno sforzo attentivo, ma quando la neurodegenerazione raggiunge le aree frontali e prosciuga le risorse attentive qui localizzate, la memoria peggiora drasticamente.
Linguaggio e funzioni esecutive
Il disturbo della memoria semantica è collegato alla lesione delle strutture cerebrali temporali e frontali. Peraltro, rende conto di vari disturbi del linguaggio osservati nell’Alzheimer, come le anomie, i deficit di denominazione, l’impoverimento del lessico e, sul versante ricettivo, la fatica a comprendere le parole. Oltretutto, i disturbi del linguaggio parlato sono accompagnati dal declino della capacità di leggere e, ancor più, di scrivere. La compromissione semantico-lessicale potrebbe essere spiegata da un fallimento nell’accesso al magazzino semantico – il deposito dei significati e delle rappresentazioni delle parole -, causato dal prosciugamento delle risorse attentive e, quindi, dalla lesione della corteccia frontale. Il danno qui prodotto altera il funzionamento esecutivo dei pazienti, ovvero l’insieme delle abilità necessarie per il comportamento finalizzato al raggiungimento di un obiettivo. Le funzioni esecutive interessate sono:
- fluenza verbale semantica ( generare più parole possibili relative a una categoria)
- set shifting (cambiare strategia di risposta se l’ambiente lo richiede)
- astrazione di concetti generali e pianificazione
- decision making (decidere in base alle informazioni e alla valutazione del rischio)
- memoria di lavoro (mantenimento delle informazioni per manipolarle)
Funzioni visuo-spaziali
I meccanismi di integrazione fra informazioni visive e coordinate spaziali sono fondamentali (stimare la distanza fra sé e gli oggetti ecc.) nelle azioni quotidiane. La descrizione delle alterazioni osservate nell’Alzheimer ci aiuterà a comprendere quante abilità si basino sull’integrità delle funzioni visuo-spaziali:
- disorientamento, nei posti conosciuti o sconosciuti
- disturbo dell’esplorazione visiva (una parte degli stimoli viene ignorata)
- mancato riconoscimento dei volti, compreso il proprio (prosopoagnosia)
- incapacità di disegnare a mano libera o copiando (aprassia costruttiva)
Solitamente il declino visuo-spaziale diventa evidente quando l’Alzheimer, dal lobo temporale, raggiunge le aree parietali e occipitali. Comunque, il disegno a mano libera risulta compromesso già nelle fasi iniziali, forse a causa dei danni prodotti alla memoria semantica e, quindi, alle rappresentazioni delle cose. Con la progressione diventa impossibile copiare anche disegni molto semplici. Un interessante fenomeno è quello dell’accollamento al modello: il disegno copiato da un modello viene eseguito sul modello stesso.
MORBO DI ALZHEIMER, COME COMPORTARSI: ASSISTENZA E NUOVE CURE
Dall’esordio della malattia il 50 % dei malati muore entro 5 anni, mentre l’aspettativa massima di vita è di 15. Il decorso è caratterizzato dal peggioramento delle condizioni della persona, sempre meno lucida. Al di là del declino cognitivo, si presentano segni (incontinenza, difficoltà a mangiare in autonomia ecc.) che richiedono la continua assistenza dei familiari e possono comparire sintomi neurologici come la paralisi. I discorsi, impoveriti, diventano vocalizzazioni e, nella fase terminale del morbo di Alzheimer, incapacità di comunicare. Molto problematici sono i sintomi psichiatrici come l’aggressività (dovuta all’incapacità di ricordare i nomi, riconoscere i volti, di esprimersi o capire, le allucinazioni ecc.). Un ulteriore aggravamento si deve alla disfagia: il paziente non può nutrirsi regolarmente, perde l’appetito ed evita di mangiare, dimagrendo rapidamente e perdendo la massa muscolare. In questo stato di deperimento e di immobilità, le problematiche mediche aumentano ed è frequente morire per complicazioni polmonari.
L’Alzheimer dagli occhi di chi assiste
Il supporto e la corretta informazione permettono ai familiari di sapere che i sintomi psichiatrici del paziente solo legati a problematiche pregresse (emotive ecc.) e che risolverle è un modo di ridurre il malessere. Inoltre, è bene non correggere gli errori di memoria né ridicolizzare le allucinazioni, poiché le discussioni sui sintomi aumentano la sofferenza. Potrebbe sembrare indelicato chiedere questo sforzo aggiuntivo a chi si occupa di un familiare affetto da demenza. È estenuante fornire questo tipo di assistenza, anche per le emozioni provate. La disperazione di perdere lentamente una persona cara e di non avere vie di fuga; la rabbia contro il malato e, per questo, il senso di colpa. Ma la rabbia è umana ed è naturale provarla in situazioni simili. È assodato che occuparsi di un malato di Alzheimer è stressante, aumenta il rischio di cattiva salute e abbassa l’autostima. Ciò è tanto più vero se si ha poco tempo libero, se ci si occupa dell’anziano per e da molto tempo e se la malattia è grave. I modi migliori per trovare beneficio sono, invece, l’accettazione del problema e la ricerca di un supporto.
Cura del morbo di Alzheimer: realtà contro sensazionalismo
Mentre la ricerca fa passi in avanti, spesso sentiamo parlare di un nuovo farmaco. Sfortunatamente siamo ancora lontani da questo obiettivo, anche se negli USA la FDA ha approvato il primo farmaco della storia contro l’Alzheimer. Si tratta di Aducanumab, un anticorpo monoclonale che distrugge gli ammassi di Aβ e si ripromette di rallentare il declino cognitivo. Tuttavia i trial clinici hanno mostrato trascurabilissima efficacia, per di più causando emorragie o edema cerebrale nel 40 % dei pazienti. Risultati non soddisfacenti, come quelli dei farmaci tradizionali: memantina (antagonista del recettore glutamatergico NMDA) e inibitori dell’AChEI (aumentano la trasmissione di acetilcolina, compromessa dalla neurodegenerazione), prescritti a seconda della gravità della malattia da medici specializzati. Gli antidepressivi possono attenuare la depressione e gli antipsicotici le allucinazioni e l’aggressività. Tuttavia, gli antipsicotici peggiorano lo stato cognitivo del malato, perciò si raccomanda di usarli nei casi più gravi e alla minima dose efficace. Tra gli interventi non farmacologici:
- Reality Orientation Therapy, per il riorientamento spazio-temporale del malato
- Training cognitivo per il miglioramento di specifiche funzioni cognitive
- attività di gruppo (musicoterapia, cucinare ecc.) per ridurre l’agitazione
Fonte
- Manuale di neuropsicologia. Normalità e patologia dei processi cognitivi
L. Pizzamiglio, G. Denes (2019) - Neuropsicologia
E. Làdavas, A. Berti (2014)