Coscienza, come funziona? Nonostante gli studi clinici e sperimentali siano sempre più raffinati, siamo ancora lontani da una piena comprensione del rapporto tra coscienza e cervello. Cosa si intende con «coscienza»? Gli animali sono coscienti? Il neonato è cosciente? Le macchine sono o saranno mai coscienti? Questo articolo cercherà di rispondere alle molte domande in merito sulla base delle più recenti ricerche scientifiche.
IN BREVE
Indice
- 1. LA PROSPETTIVA TEORICA
- 2. LA PROSPETTIVA PSICOBIOLOGICA
- 2.1 Coscienza come interazione tra aree cerebrali
- 2.2 La meccanica dell’elaborazione inconscia
- 2.3 Coscienza, come funziona e quanto siamo coscienti
- 2.4 I moduli della coscienza
- 2.5 Perché le intelligenze artificiali non sono coscienti
- 2.6 «Fare» non è «essere»: il libero arbitrio
- 2.6 Differenze individuali: perché ognuno è diverso dagli altri
- 3. LA PROSPETTIVA LINGUISTICA
- 4. LA PROSPETTIVA EVOLUZIONISTICA
LA PROSPETTIVA TEORICA
Attualmente il cervello umano è l’entità biologica più complessa dell’universo conosciuto. È incredibile come un organo così piccolo possa essere tanto potente. Tuttavia, piuttosto che parlare di «cervello» al singolare, sarebbe meglio parlare di «cervelli» al plurale. La macchina cerebrale infatti non è univoca, ognuno ha il proprio «modello» con delle specifiche caratteristiche, plasmate dalla biologia, dalla cultura e dall’ambiente. Nessun cervello è uguale ad un altro, quello di ciascuno è unico come un’impronta digitale, eppure condivide con gli altri determinate caratteristiche che lo rendono «attivo» e che di conseguenza rendono la persona cosciente; ma cosa si intende con «coscienza» e soprattutto come funziona?
Coscienza: significato
La coscienza è un’esperienza soggettiva. Tutti hanno coscienza, ma ognuno ha la propria coscienza dal momento che questa si basa sul funzionamento cerebrale dell’individuo ed ogni cervello differisce dagli altri per quanto detto prima. Ne deriva la definizione secondo cui coscienza = «What is like» percepire una scena, riconoscere un volto, evocare un pensiero o riflettere su un’esperienza. Due individui sani e svegli sono in egual modo coscienti, ma se si chiederà loro di pensare ad un evento, essi non lo penseranno mai alla stessa maniera. Ciascuno lo evocherà con dettagli e caratteristiche proprie e differenti rispetto a quelle dell’altro. Pensando alla mente, si crede che tutti gli esseri viventi allo stesso modo «sentano» la vita come gli esseri umani, dopotutto anche le specie più antiche dal punto di vista evolutivo come batteri o cellule anucleate sono in grado di percepire la presenza di alcune condizioni e rispondere ad esse in maniera adeguata, ma questa risposta non dipende dalle competenze specifiche tipiche della mente umana e del sistema nervoso, bensì da altri meccanismi più semplici ed immediati. Siamo coscienti quando siamo in grado di percepire consapevolmente gli stimoli esterni e di rispondere ad essi altrettanto consapevolmente, ma la percezione sensoriale di tali stimoli (più che altro l’elaborazione) non è mai univoca e non si basa solo sulle loro caratteristiche fisiche. È frutto di un complesso processo di associazione tra input e memorie ad essi collegate, intuitivamente differenti di individuo in individuo e soprattutto di cultura in cultura. Per questo motivo si è soliti parlare di «coscienza collettiva»: ogni cultura, in continuo mutamento, ha la propria coscienza in termini di valori e di apprendimenti tramandati e anche per questa ragione nessuna persona vivrà mai la stessa vita vissuta da qualcun altro.
Coscienza, come funziona? Non è solo percezione
A supporto di questa idea vi è il cosiddetto knowledge argument, altrimenti detto Mary’s thought experiment. Immaginiamo che Mary sia una giovane studiosa che vive da sempre in una stanza bianca e nera. Con grande veemenza impara tutto ciò che c’è da sapere sulle teorie neurobiologiche della percezione del colore e dopo tanti anni per la prima volta esce di casa. Vede un fiore rosso, ma pur sapendo tutti i fatti fisici relativi al colore, il rosso visto per la prima volta dal vivo comunque la stupisce e la entusiasma. Questo perché non tutta la percezione è riferita alla semplice conoscenza di fatti fisici. Vedere la coscienza come il frutto di una semplice relazione tra stimolo e risposta è riduttivo.
Vi sono intelligenze artificiali (IA) in grado di svolgere compiti meccanici molto meglio di tanti umani, eppure non è possibile intenderle propriamente come «coscienti», vedremo più avanti perché. Potrebbero ad esempio essere in grado di riconoscere il colore rosso in funzione delle sue caratteristiche, ma non lo «sentirebbero»; vederlo per la prima volta non le entusiasmerebbe, sarebbe per loro come vederlo per l’ennesima. Le nostre IA potrebbero essere in grado di rispondere al celebre dilemma del carrello di Philippa Ruth Foot sulla base di costi e benefici, ma non possiederebbero una vera e propria coscienza morale.
LA PROSPETTIVA PSICOBIOLOGICA
Sottolineiamo che per quanto le persone possano avere una diversa consapevolezza del mondo, tutti ne hanno consapevolezza in senso lato, seppur secondo modalità differenti. Vi sono infatti dei meccanismi biologici comuni attraverso cui si genera la coscienza che solo successivamente viene declinata sulla base degli apprendimenti. Ogni sera quando andiamo a dormire o quando veniamo anestetizzati, «spariamo»; quando ci svegliamo, torniamo al mondo cosciente. Lo stato vegetativo è associato ad un pattern EEG sincronizzato, inizialmente descritto da Richard Caton, indice del fatto che molti neuroni sono attivi contemporaneamente. Tale attività appare nel sonno NREM (Non-Rapid Eye Movement) come attività spontanea, ma anche in anestesia profonda o in caso di isolamento anatomico di una particolare area cerebrale. Troncando la connessione tra due aree, scollegandole dalla corteccia, compare il caratteristico pattern ad onde lente. Tale ritmicità tipica del sonno NREM è solitamente associata all’inconsapevolezza.
Coscienza come interazione tra aree cerebrali
Coscienza, come funziona dal punto di vista neurologico? Se una porzione anatomica isolata genera onde lente, allora lo stato di base della coscienza è l’incoscienza. Il cambio di pattern ondulatorio, e quindi la transizione alla coscienza, è reso possibile dall’interazione tra differenti aree che prese singolarmente restituirebbero sempre e solo il consueto pattern sincronizzato. La coscienza quindi è associata alle interazioni tra diverse aree del cervello, che a seconda della modalità di comunicazione, possono portare alla generazione di diversi livelli di coscienza, come ad esempio i diversi stati del sonno. Dunque è innanzitutto necessaria interazione tra aree perché vi sia coscienza, ma di cosa siamo consci? Quando parliamo della coscienza del sé possiamo dire di essere consci del mondo esterno, del nostro corpo, dei nostri pensieri, dei nostri sensi, della nostra storia, dei piani passati e futuri. Tutte queste informazioni vengono codificate tramite sequenze di spike elettrici al livello cerebrale che successivamente vengono integrati con quelli delle informazioni associate e generano l’immagine composita di cui possiamo dire di avere coscienza.
La meccanica dell’elaborazione inconscia
L’architettura cerebrale non si limita quindi a diffondere le informazioni in «verticale» dal tronco alla corteccia (stimolo sensoriale-risposta comportamentale), ma anche «orizzontalmente» tra aree della corteccia stessa (stimolo sensoriale-integrazione, elaborazione-risposta comportamentale). Si parla di «spazio di lavoro globale neuronale», ovvero uno spazio dove abbiamo elaboratori interconnessi che informano e sono informati da altri elaboratori, creando il cosiddetto «riverbero». L’informazione, come un suono, rimbalza sulle pareti della stanza, riverberando e diffondendosi. È stato visto che senza riverbero, lo stimolo rimane inconscio; viene percepito, ma in modo inconsapevole e subliminale (Sadaghiani et al., 2009). Si sottolinea che lo spazio di lavoro globale esiste in tutti gli animali, ma differisce per connettività, per questo motivo non è possibile dire che gli animali sono consci tanto quanto l’uomo. «Connettività» e «connettomica», come suggerisce l’etimologia, indicano il grado di connessione tra le diverse aree cerebrali di un soggetto, e quindi la sua maggiore consapevolezza. Difatti, più le aree sono interconnesse e lavorano insieme, maggiore è la coscienza del soggetto di sé stesso e del mondo. Al contrario, più le unità lavorano autonomamente senza andare a formare una rete, più il soggetto tende a lavorare in modo meccanico, senza una vera e propria consapevolezza.
Coscienza, come funziona e quanto siamo coscienti
Quando dormiamo ma non sogniamo, tutto scompare; suoni, oggetti, forme, colori, sensazioni: durante la notte tutti sperimentano l’assenza di coscienza. Essere consci significa avere un’esperienza. Immaginate di svegliarvi con un libro in mano nella vostra stanza, in quel momento si sta vivendo un’esperienza. Anche una stanza buia è di fatto «un’esperienza», ovvero qualcosa che ci permette di capire che si è lì, un senso di presenza. Tuttavia, per quanto detto nei paragrafi precedenti, l’esperienza non è solo reattività, né solo esperienza stretta del mondo esterno; ogni essere più o meno vivente può essere anche più o meno cosciente. L’Integrate information Theory (IIT) pensata da Giulio Tononi propone di quantificare la portata della coscienza con la cosiddetta variabile PHI. Secondo la IIT le proprietà fisiche della realtà vengono spiegate in termini di causa-effetto. In altre parole, pensare al Duomo di Milano (causa) genera una serie di effetti a livello neurale (attivazione delle aree visive) che a loro volta sono causa per altri effetti (rievocazione delle emozioni collegate al ricordo del Duomo), anch’essi causa per altri fenomeni (presentazione alla consapevolezza della rappresentazione «Duomo di Milano» con tutte le informazioni associate). Si crea così una rete di connessione causa-effetto, tanto più intensa quanto più è cosciente l’individuo. Tramite PHI è possibile quantificarne la portata e tracciarne la forma tridimensionale. Si pensi alle applicazioni di questo modello: potrebbe essere in grado di dirci ad esempio se e quanto un embrione, una macchina o un paziente in coma sono «vivi».
I moduli della coscienza
Coscienza, come funziona? Sappiamo che, nonostante il numero di neuroni, ha a che vedere, ad esempio, con la corteccia cerebrale (16miliardi di neuroni) e non con il cervelletto (70 miliardi di neuroni). Esportando il cervelletto vi è comunque coscienza, ma senza corteccia non c’è più esistenza. Eppure durante il sonno profondo la corteccia è attiva, i neuroni scaricano, ma in quella fase non vi è consapevolezza. Questo perché la struttura causa-effetto del cervelletto è modulare, mentre quella della corteccia è in grado di supportare la coscienza dal momento che presenta una superficie della «forma» causa-effetto ininterrotta e decisamente più estesa. La stessa modularità del cervelletto è osservabile durante il sonno NREM dove le interazioni causali tra neuroni della corteccia si scompongono e quindi viene a mancare la coscienza. Stimolando un particolare punto del cranio, nelle varie fasi del sonno, si ottengono risposte di integrazione differenti, in funzione della maggiore o minore modularità della struttura causa-effetto. In altre parole, stimolando un unico punto del cervello, il segnale si diffonde più o meno largamente a seconda della connessione tra moduli in quel particolare momento. Secondo Giulio Tononi tuttavia la coscienza non è solo una questione di «area più grande», difatti tutto il cervello nel suo insieme non sembra particolarmente adatto all’integrazione. Solo la sua parte posteriore massimizza il PHI. Durante il sonno, un terzo del tempo il paziente è completamente assente, ma per due terzi è conscio. Confrontando le aree tra le varie fasi, la differenza funzionale principale sta proprio nell’area posteriore del cervello. È quella più attiva nel sonno REM (Rapid Eye Movement) dove vi è maggiore concentrazione di sogni e coscienza, e quella con più onde lente (che ricordiamo essere rappresentative di disconnessione ed incoscienza) nel sonno NREM. A dimostrazione di questa ipotesi vi è l’evidenza secondo cui dalla rimozione della corteccia prefrontale non deriva incoscienza, ma un trauma nei lobi posteriori spesso è associato al coma o ad uno stato vegetativo (Boly et al., 2017).
Perché le intelligenze artificiali non sono coscienti
Ipotizziamo di avere un sistema computazionale costituito da cinque neuroni affiancato ad un secondo sistema composto da sessantasei unità. Immaginiamo che entrambi i sistemi siano in grado di fare la stessa cosa, ma che il potere causa-effetto del secondo risulti inferiore a quello del primo. A queste condizioni il sistema di complessità minore sembra essere «più conscio» rispetto al più elaborato; questo perché il primo tende a lavorare come un’unica entità, mentre il secondo in modo modulare, senza che vi sia una vera e propria connessione tra le unità costituenti. Un supercomputer potrebbe essere in grado di fare esattamente le stesse cose di un umano, ma avrebbe comunque un PHI uguale a zero, e non avrebbe quindi coscienza. Per giunta l’uomo ha molto tempo per sviluppare gradualmente la propria personalità e per connettere tra loro le diverse esperienze di vita tramite la memoria, cosa che invece è pre-programmata all’interno nel robot. Citando le parole del generale Foch «un homme sans mémoire est un homme sans vie». Le persone senza memoria sono persone senza vita. Senza memoria non c’è apprendimento, senza apprendimento non c’è personalità, senza personalità non c’è umanità.
«Fare» non è «essere»: il libero arbitrio
Coscienza e intelligenza vanno di pari passo nell’essere umano. Un organoide potrebbe essere altamente conscio, ma non intelligente, mentre un supercomputer potrebbe essere intelligente, ma non conscio. Solo l’evoluzione ha sviluppato una struttura architettonica tale da massimizzare la causa-effetto. PHI è letteralmente un quantificatore dell’esistenza. Stando alle parole di Leibniz, quello in cui viviamo è davvero il migliore dei mondi possibili per noi, dal momento che siamo noi a spiegarlo in termini tanto oggettivi quanto soggettivi sulla base della nostra particolare struttura causa-effetto, che non sarà mai uguale a quella degli altri. L’universo non esiste in quanto tale, ma esiste solo nella mente di chi lo osserva. In quest’ottica l’uomo è davvero colui che decide e controlla il proprio destino, essendo il destino e la realtà delle costruzioni della sua mente. Tuttavia è altrettanto vero che prima di compiere una determinata azione ci sono parti del cervello che stanno già iniziando a prepararla. La decisione quindi è già stata presa a priori? Una volta che prendiamo atto del substrato fisico, non sembra esserci più spazio per il libero arbitrio. Ogni neurone decide se scaricare o meno in funzione degli ingressi nella cellula. Tutto sembra essere determinato dai neuroni e non c’è spazio per nessun’altra causalità al di sopra di quella microfisica, molecolare, atomica e subatomica, anche se all’atto pratico sembra che sia a «io» a muovere il braccio in modo cosciente. La decisionalità in termini biologici sembra essere nient’altro che un outcome obbligato frutto dell’intersezione tra fattori genetici, biologici, culturali e ambientali. Secondo IIT, al contrario, il libero arbitrio esiste. Quando si causa un’azione la si causa coscientemente, essa non dipende dai neuroni. Questo perché a priori esiste la coscienza intesa come fenomeno, solo dopo segue la comprensione del substrato fisico in termini causa-effetto. Entrambe le prospettive hanno punti di forza e punti di debolezza, ma con le conoscenze attuali purtroppo non è ancora possibile trarre delle conclusioni univoche.
Differenze individuali: perché ognuno è diverso dagli altri
Coscienza, come funziona e perché ci rende unici? Come dicevamo nei paragrafi precedenti, ognuno di noi possiede una propria ed unica struttura causa-effetto, un proprio ed unico cervello e quindi una propria ed unica coscienza e consapevolezza di sé e del mondo. Se è vero che il nostro comportamento dipende in gran parte dal substrato biologico che lo realizza, allora i nostri atteggiamenti, buoni o cattivi che siano, non sono causa nostra, bensì causa di ciò che sta alla loro base in termini molecolari e cellulari. Le azioni e le modalità attraverso cui queste si manifestano sono frutto delle diverse combinazioni sinaptiche e circuitali alla base degli atteggiamenti umani. In due persone diverse è possibile avere due network simili da cui dipende uno stesso comportamento nonostante alla base vi siano pattern sinaptici differenti. Da qui dipenderebbero le differenze individuali: tutte le persone camminano, ma ognuno con un andamento differente. Alcuni set di parametri sono forse associati anche ad una maggiore resilienza.
È stato visto che diversi animali rispondono allo stesso modo ad uno stesso stress, a patto che questo rimanga lieve e gestibile. A lungo andare lo stress rivela gli effetti delle differenze tra i parametri, invisibili normalmente. Difatti, quando la temperatura sale molto, i diversi animali «crashano» (non rispondono più), ciascuno in un modo e in un tempo diverso, in funzione del suo pattern sinaptico-ionico alla base. Un’ipotesi di questo tipo potrebbe anche spiegare il perché di molti fenomeni psicologici caratterizzati da un’alterazione dello stato di coscienza, come nel caso della depersonalizzazione e della derealizzazione. In quest’ottica vi sarebbero infatti individui maggiormente predisposti di altri a presentare delle specifiche sintomatologie.
LA PROSPETTIVA LINGUISTICA
La lingua è sicuramente una della abilità umane più elevate. Fin dai primi anni di vita, impariamo ad unire i suoni ai fonemi e poi alle parole, a cui infine diamo un significato. Gli animali non hanno questa competenza. L’homo sapiens è diventato sapiens anche grazie al linguaggio. La lingua può quindi essere considerata come una condizione necessaria per la costituzione della coscienza? Eppure anche gli animali hanno una sorta di coscienza pur non sapendo parlare, ed esistono innumerevoli intelligenze artificiali in grado di riconoscere il linguaggio e dare una risposta, pur non avendo una vera e propria coscienza. Dunque dov’è la verità? La mente umana ha la fantastica capacità di differenziare i concetti in categorie semantiche. Il cervello, mentre impara, si sviluppa tramite strutture ad albero, come fosse un corallo. Con altri primati condividiamo la conoscenza dei concetti chiave (numeri, lettere, oggetti), ma solo noi a abbiamo un linguaggio di pensiero che ci permette di discernerli in simboli mentali e combinarli in programmi (linguaggi) mentali.
Cosa rende la lingua una «lingua umana»
Cosa rende la lingua una lingua umana e cosa rende un essere un essere umano? È facile per le menti umane creare delle frasi dai significati diversi (o senza significato) a partire dalle stesse parole grazie alle regole della sintassi («il gatto è sul tavolo di legno» o «gatto il sul legno tavolo»). Quando Terrace e Petitto nel ‘79 insegnarono la lingua dei segni alla scimmia Chimsky, il primate fu in grado di impararla, ma non fu mai capace di costruire delle frasi complesse. Come funzionamento ricordava molto un bambino, in grado di riconoscere parole isolate («mamma», «pappa») ma non ancora capace di costruire delle frasi significative («mamma ho fame, vorrei la pappa»). Questo perché l’uomo con l’esperienza, man mano che apprende i concetti durante lo sviluppo, li incapsula in campi semantici ed attribuisce loro dei significati. Successivamente connette tra loro le capsule a formare una vera e propria rete semantica. Ogni parola in questo modo diventa un «simbolo» in grado di richiamare non solo i suoi specifici significati, ma anche tutti quelli ad esso collegati. Ad esempio alla sola parola «cane» verranno associate parole come «animale», «pelo», «gatto», «padrone» e tante altre. Proprio per questa ragione l’uomo, a differenza del primate o della macchina, è in grado di associare spontaneamente le parole in funzione dei loro significati al fine di formare frasi significative.
LA PROSPETTIVA EVOLUZIONISTICA
Se cultura = passaggio, di generazione in generazione, di comportamenti appresi, allora, a differenza del linguaggio, essa non è unica solo della nostra specie. Non è un’esclusiva dell’Homo Sapiens; negli scimpanzé infatti sono stati trovati ben 39 comportamenti «culturali» quali esibizioni sessuali, modo di intrecciare le mani, modo di usare gli utensili per catturare le termiti o per aprire le noci. Quello che c’è di unico negli uomini è la forma di coscienza insolita che caratterizza tali comportamenti. Si tratta di uno stile cognitivo particolare, infatti, in linea con quanto detto nel paragrafo precedente, gli esseri umani tendono a scomporre l’ambiente in simboli mentali astratti. La stessa atomizzazione non è visibile negli altri animali, che invece analizzano il mondo in modo olistico. L’uomo, una volta decostruito il mondo, usa le componenti a piacimento per assemblare le proprie rappresentazioni. Viviamo dunque nella versione del mondo che ricostruiamo all’interno delle nostre menti, quindi ogni mondo non è altro che un costrutto, un racconto, frutto delle credenze individuali, a loro volta provenienti dalla cultura di origine.
Come siamo arrivati alla coscienza attuale
Come ci mostrano i fossili, il primo ominide aveva già un sistema cognitivo piuttosto complesso. Due milioni e mezzo di anni fa, l’uomo-scimmia costruì il primo utensile in pietra. Tale creazione richiedeva, oltre alla destrezza manuale, pianificazione consapevole e creatività, ovvero competenze non condivise con gli altri primati. Da quel momento in poi l’uomo-scimmia cominciò ad evolversi in modo sempre più rapido, soprattutto perché i primi utensili servirono a procacciarsi le sostanze utili e fondamentali per lo sviluppo cerebrale e per il sostentamento di un organo via via più grande. Infatti, dopo il primo utensile, seguirono pietre scolpite in modo sempre più definito e rifinito, simbolo di una concettualizzazione ancor più complessa.
Con la crescita cerebrale, comparvero i primi gioielli, le prime decorazioni simboliche e i primi strumenti musicali, tanti prodotti dell’ego umano e della creatività, entrambi frutto dello sviluppo concettuale e dell’integrazione simbolica. Le concettualizzazioni hanno dato gli Homo un nuovo potenziale cognitivo che tuttavia non si è palesato fino a quando qualcosa non gli ha permesso di organizzarsi, probabilmente il linguaggio spontaneo e creativo, massima espressione del ragionamento simbolico.
Coscienza, come funziona? Gli stati cerebrali
L’uomo crea. Arte e scienza dovrebbero andare di pari passo, congiuntamente. Spesso gli artisti si prefigurano le cose ancor prima degli scienziati, ma quello creativo è lo stato comune ad entrambi. Il cervello infatti ha sviluppato strumenti per sviluppare stati particolari, tra cui proprio quello creativo, non condivisi con altri cervelli. Le macchine non creano a meno che non siano programmate per farlo. Negli animali e negli strumenti tecnologici non vi è creatività spontanea. Al livello genetico tutte le specie si assomiglialo incredibilmente. Con lo stesso cervello, la stessa struttura e la stessa fisiologia, l’uomo è riuscito comunque distinguersi grazie alla capacità del cervello di entrare nei suddetti «stati». Ad un tratto esplose rispetto alle altre specie, quando finalmente riuscì ad attivare, forse tramite il linguaggio simbolico come si diceva nel paragrafo precedente, il substrato biologico che già lo distingueva rispetto agli altri viventi. Il neurone non è altro che un dispositivo elettrico. Un microchip che genera idee, permette di pensare, mangiare, dormire ecc… in ogni cervello ci sono circa 86 miliardi di elementi come questo e l’interazione tra di essi crea gli stati in questione. Volendo fare un paragone, ogni neurone ha la propria musica elettrica; tutti i neuroni nel loro insieme creano una sinfonia. Un cervello con Parkinson ad esempio ha la propria sinfonia elettrica da cui dipende tutta la sintomatologia tipica della malattia. Da qui derivano tecniche come la Deep Brain Stimulation (DBS), che tramite un generatore di impulsi (un pacemaker per intenderci), interferiscono con l’attività elettrica cerebrale (quindi con lo stato) e riescono a correggerla quando è alterata.
L’uomo è cosciente perché è creativo
Sia quindi ben chiaro che non è solo la dimensione del cervello a renderci creativi. Il cervello di Einstein pesava circa 1.2 Kg, quello di Anatole France pesava 1.1 Kg, mentre un cervello normale in media pesa 1.3 Kg. Sicuramente la sostanza conta perché con 86 miliardi di neuroni le combinazioni tra di essi a formare gli stati sono innumerevoli, mentre meno neuroni possono creare meno combinazioni, e quindi meno stati, ma sono proprio le combinazioni e la connettività le vere responsabili dello stato creativo e degli altri stati cerebrali. Basta dire vetro per generare nella mente di ciascuno un’infinità di immagini multisensoriali (un bicchiere, la sabbia, il gusto della bevanda nel bicchiere, il calore della sabbia…). La connettività permette di creare appunto connessioni tra significati e quindi simboli, ovvero insiemi di concetti, essenziali per la creatività. Maggiore è il numero di sinapsi per singola unità, maggiore è la connettività, maggiore è il numero di stati cerebrali possibili. Ricordiamo che le connessioni si creano e si sviluppano per mezzo degli apprendimenti, per questo motivo un bambino sarà molto meno cosciente e «competente» rispetto ad un adulto, perché sarà ancora inesperto dal punto di vista delle assimilazioni. Un computer non è creativo, è una macchina determinista, fa esattamente la stessa cosa sempre, in funzione dei comandi che gli vengono dati. Questo perché non produce rumore: 3 – 3 = 0 senza alcun dubbio, né interferenza. Il cervello umano invece è una macchina estremamente rumorosa. Misurando l’attività di un singolo neurone, vi è sempre una continua attività di fondo, anche senza spike. C’è sempre vivacità basale, in tutte le specie, eppure i neuroni umani sembrano essere molto più rumorosi degli altri. Il momento creativo è proprio quello «rumoroso», difatti generalmente siamo più creativi quando siamo malati, quando abbiamo la febbre o quando sogniamo, ovvero quando il cervello è estremamente rumoroso. In quest’ottica, un maggiore disturbo coincide con una maggiore creatività, ragion per cui sembra esserci un legame tra genio e follia nella maggior parte dei casi.
Coscienza, come funziona? L’uomo è cosciente perché sa di sapere e sa di essere
Vediamo comparire la parola «coscienza» in molte opere creative frutto esse stesse della coscienza, basti pensare alla Coscienza di Zeno o alla coscienza infelice di Hegel, ed è proprio questo il punto. Ciò che rende l’uomo cosciente è la sua capacità di metacoscienza. L’uomo sa di sapere, sa di essere, e questa condizione sembra sia esclusiva, non condivisa con altri primati, tantomeno con le macchine. Tutto ciò non significa che gli animali e le macchine non saranno mai coscienti; in linea teorica i primi potrebbero diventare via via più consapevoli con l’evoluzione, proprio com’è successo per l’uomo, le seconde con le implementazioni tecnologiche sempre più fini. L’uomo sta recentemente introducendo macchine che imparano e modulano i loro outcome in funzione dell’ambiente. Stiamo passando dalla passività alla creatività; i software, sempre di più, stanno passando dall’essere statici all’essere dinamici e rumorosi, come fossero bambini nascono, imparano e crescono. Dopotutto gli uomini sono le creature più creature tra le creature proprio perché possiedono la capacità di creare. Non dovremmo meravigliarci nel sapere che prima o poi l’uomo sarà in grado di creare anche sé stesso.
Fonte
- Human Brains: Culture and Consciousness (9-13 Nov 2020).
Fondazione Prada - Sadaghiani, S., Hesselmann, G., & Kleinschmidt, A. (2009). Distributed and antagonistic contributions of ongoing activity fluctuations to auditory stimulus detection.
JNeurosci - Tononi, G., Boly, M., Massimini, M., & Koch, C. (2016). Integrated information theory: from consciousness to its physical substrate.
Nature - Boly, M., Massimini, M., Tsuchiya, N., Postle, B. R., Koch, C., & Tononi, G. (2017). Are the neural correlates of consciousness in the front or in the back of the cerebral cortex? Clinical and neuroimaging evidence.
JNeurosci - Terrace, H. S., Petitto, L. A., Sanders, R. J., & Bever, T. G. (1979). Can an ape create a sentence?
Science