Teoria biosociale, cos’è? Di cosa si tratta? Tutto nasce dalla mente di Marsha Linehan, una psicologa americana che non molto tempo fa, per trovarvi una soluzione clinica, si domandò quali fossero i sottili meccanismi evolutivi alla base dello sviluppo personologico disfunzionale. Parleremo principalmente di disturbo borderline, ma che sia il discorso generalizzabile anche agli altri disturbi di natura psicosociale?
IN BREVE
Indice
TEORIA BIOSOCIALE: SIGNIFICATO E DEFINIZIONE
Teoria biosociale, cos’è? Di cosa si tratta? Tutto nasce dalla mente di Marsha Linehan, una psicologa americana che non molto tempo fa, per trovarvi una soluzione clinica, si domandò quali fossero i sottili meccanismi evolutivi alla base dello sviluppo personologico disfunzionale. Prima di entrare nel vivo della narrazione è necessario spiegare a grandi linee cosa sono i disturbi di personalità; la mente inesperta vi ricollega immediatamente fenomeni legati alla criminologia, tipicamente di ambito forense o cinematografico come la psicopatia o il disturbo da personalità multiple. In realtà le traiettorie evolutive che la personalità può seguire sono molteplici e i disturbi di personalità sono svariati. Secondo la teoria biosociale, la personalità di un individuo si sviluppa in funzione di come egli è fatto dal punto di vista biologico e delle esperienze sociali che sperimenta sulla sua pelle.

Ognuno è «costruito» in maniera diversa rispetto agli altri dal punto di vista biochimico, inoltre ciascuno sperimenta delle esperienze sociali uniche e le vive in modo diverso a seconda di come è fatto. Ne derivano infinite combinazioni tra fattori sociali e biologici che, a volte, possono portare allo sviluppo di tratti di personalità estremi (non solo la manipolatorietà come nel caso della psicopatia, ma anche il perfezionismo rigido tipico delle personalità ossessive, l’ansia delle evitanti e tanti altri). Quando più tratti «estremi» si associano, allora si può parlare di disturbo di personalità. Siccome i tratti sono molti, sono svariate anche le combinazioni tra di essi, e quindi i disturbi di personalità. Per questo motivo in ambito clinico non si può parlare solo di psicopatia o personalità multiple, il quadro è ben più complesso. Linehan focalizzò la sua attenzione su una particolare traiettoria evolutiva, quella del disturbo bordeline di personalità (BPD).
Tutto nasce con il disturbo borderline
I soggetti affetti da BPD sono pazienti particolarmente gravi dal punto di vista clinico e difficili da trattare. Tendono a perdersi nella vita di tutti i giorni, fanno fatica a relazionarsi e questo li rende particolarmente sensibili sul piano emotivo. Per loro rischiano di diventare problematici anche i più comuni eventi di vita. Non è detto che in passato abbiano subito traumi maggiori quali violenze sessuali o simili da cui potrebbe scaturire la patologia in modo conclamato, al contrario molti pazienti sembrano provenire da famiglie «normali», a volte altolocate ed apparentemente ben adattate, dov’è quindi il problema? Spesso il quadro clinico di questi pazienti finisce per precipitare, molti di loro non riescono neanche a vivere la cosiddetta «vita degna di essere vissuta» («life worth living»), ovvero un’esistenza in cui il soggetto riesce ad organizzare il suo comportamento in modo tale da ottenere sul lungo termine obiettivi connessi ai propri valori. Non si parla solo di valori metafisici, ma anche concreti (una relazione stabile, una famiglia, dei figli, un buon lavoro, un’abitazione dignitosa, la possibilità di avere degli hobby), quindi tutte quelle «semplici» cose che potrebbero potenzialmente dare valore alla vita.

Spesso i pazienti hanno ben in mente ciò che vorrebbero per essere felici, hanno in mente gli obiettivi (amicizia è un valore, avere degli amici è un obiettivo), ma non sono in grado di organizzare il proprio comportamento in modo tale da raggiungere tali obiettivi. Non ci riescono. Il loro livello di disabilità è pari a quello di un paziente con grave malattia cronica, dal momento che le loro autonomia ed efficacia nel mondo sono quasi nulle, così come il loro benessere. Non parliamo per ipotesi, ci basiamo su dati concreti: i disturbi mentali sono patologie a tutti gli effetti, come fossero tumori o altre malattie ad alto potenziale invalidante. Nel grafico vediamo gli elevati livelli di disabilità dei pazienti rispetto ai famigliari e soprattutto rispetto ai controlli (Ruocco, Lam & McMain, 2014). Si noti che le macro aree più sofferenti sono proprio quelle relative alla sfera sociale. Dunque cosa impedisce a questi pazienti di costruirsi una vita degna di essere vissuta? Lo scopo della ricerca in quest’ambito è proprio quello di andare a trovare i fattori comuni a tutti i soggetti con BPD, il più oggettivi possibile, fino ad arrivare alla biologia.
Problemi nella regolazione delle emozioni
Linehan si ritrovò ad avere a che fare negli anni settanta con donne aventi particolari comportamenti ad alto rischio suicidario. Molti di tali comportamenti erano autolesivi, oppure rientravano nella sfera delle dipendenze (alcol, droga) e della promiscuità sessuale. Così definì il BPD come un disordine pervasivo e stabile del sistema di regolazione delle emozioni e lo spiegò tramite un modello biosociale transazionale che coniugava la vulnerabilità biologica con l’invalidazione da parte dell’ambiente (vedremo più avanti cosa significa). Alla base della vulnerabilità biologica secondo la psicologa vi sono 3 componenti:
- Elevata sensibilità, intesa come maggiore recettività degli stimoli (come una parabola in confronto ad una radiolina). Rispetto ad una personalità con minore sensibilità, basta poco per attivare il paziente in termini emozionali. Essendoci una soglia di tolleranza molto più bassa, stimoli a bassa intensità che non genererebbero emozioni nelle altre persone, nel BPD vanno a creare inevitabilmente una notevole attivazione fisiologica ed emotiva (arousal). Sembra che i nostri pazienti siano costantemente sulla difensiva e che interpretino come provocatori anche comportamenti innocenti. In termini psicologici, il paziente tende ad innescare precocemente la cosiddetta risposta fight or flight che in condizioni normali servirebbe solo per fronteggiare un’aggressione (fisica o verbale) o uno stimolo pericoloso. Parliamo di persone che si aspettano il peggio dagli altri in qualsiasi momento e situazione, dunque evidentemente sono cresciute in un ambiente che le ha abituate al peggio… vedremo nel prossimo paragrafo che effettivamente è proprio così;
- Alta reattività, ovvero reazioni intense ed estreme che vanno ad interferire con le funzioni cognitive. Generalmente più le emozioni sono intense, più si tende ad agire senza pensare, perché l’emozione per sua natura genera un comportamento immediato, la cognizione lo regola. Più l’emotività è intensa, più è immediato il rapporto tra stimolo e risposta, il che può avere anche una sua funzionalità come nel caso della risposta fight or flight, dove il soggetto agisce perlopiù senza pensare. Se una tigre entra in casa, tutti scappano automaticamente prima ancora di chiedersi «come diavolo ci è finita una tigre in soggiorno?». Di fronte ad un pericolo elevato, il comportamento automatico (generalmente funzionale) è quello di protezione. Le funzioni cognitive, quindi il fatto di pensare a cosa fare in termini riflessivi, vengono silenziate dall’alta attivazione emozionale. La bassa soglia di ricezione dello stimolo tuttavia spinge il paziente a riconoscere come «tigre» anche un gattino. Ne derivano delle emozioni intense anche in caso di stimoli non così estremi: sembra esserci un mismatch tra risposta protettiva d’emergenza e stimolo generalmente meno rilevante rispetto a ciò che si pensa;
- Lento ritorno alla linea di base, ovvero lunga durata della attivazione emotiva e facilitazione della risposta emotiva ad uno stimolo seguente, che rischia di andarsi a sommare con la risposta precedentemente, non ancora resettata. Mentre si sta svuotando il bicchiere, lo si riempie di nuovo. L’acqua impiegherà molto meno tempo a raggiungere l’orlo e rischierà di strabordare con molta più facilità. L’attivazione emozionale rischia di essere stabilmente sempre molto elevata (il bicchiere sempre pieno d’acqua e sul punto di traboccare).
In parte questa triade è stata validata, in parte no. Clinicamente comunque continua ad essere significativa. Attenzione ad un punto, vulnerabile di per sé non vuol dire necessariamente patologico; acquista un carattere patogenetico solo in determinate condizioni. Secondo la teoria biosociale, la patologia nasce solo quando la vulnerabilità di base incontra un’ambiente invalidante.
L’invalidazione ambientale
Cos’è un ambiente invalidante? Cosa vuol dire invalidazione? Un ambiente invalidante è qualsiasi ambiente che consideri l’attivazione emozionale come ingiustificata e non comprensibile alla luce della situazione, con conseguente tendenza alla semplificazione, alla banalizzazione, alla critica. Il che vuole dire che se il soggetto è fatto in un certo quale modo, la sua reazione sarà congrua in relazione a come è fatto dal punto di vista biologico, ma se l’ambiente (genitore, amico, nemico, parente) non considera che quella reazione è conseguenza di come è fatto il soggetto, andrà a criticare, banalizzare o addirittura punire.

Ammettiamo di avere un bambino nello stadio A1. La mamma gli dice «sai che il tuo amico ha organizzato una festa per il suo compleanno? Ti ha invitato, che bello! Compriamogli un regalo». Sappiamo che i pazienti borderline presentano precocemente non solo le componenti esternalizzanti (propensione per azione ed aggressività), ma anche quelle internalizzanti (ansia e depressione), il nostro bambino infatti soffre di ansia sociale: «ah la festa…» [sospira e storce il naso]. La mamma dopo aver dato una notizia che dal suo punto di vista era positiva, aveva l’aspettativa che il bambino fosse contento: «Come?! Non sei contento?». «No», risponde il bambino, «non mi va di andare, non mi troverei bene». A quel punto la mamma inizia ad irritarsi perché suo figlio «fa i capricci»: «Ma dai! Cosa stai dicendo? Tutti i bambini vogliono andare alle feste». «Non ci voglio andare!». «Smettila, ci andrai come tutti gli altri!». «Non voglio!». «Non farmi arrabbiare! Sei un rompiscatole! Andrai alla festa o ti ci porterò con la forza».
Transazione: gli altri ci modificano e noi modifichiamo gli altri
Partiamo dal presupposto che il bambino è fatto in un certo quale modo (A1) e la mamma idem (B1). Ogniqualvolta il bambino ha una reazione che non è congrua con l’aspettativa della mamma, lei diviene man mano sempre più critica nei suoi confronti. Dalla transazione deriva un aumento della vulnerabilità del bambino in seguito all’invalidazione sempre più insistente da parte dell’ambiente (la mamma). In pratica, se dal punto di vista biologico il bambino è maggiormente sensibile alla negatività degli eventi, perché ad esempio il suo trasportatore della serotonina è geneticamente più corto (Caspi et al., 2003), l’incomprensione e il giudizio negativo nei suoi confronti da parte della mamma sul lungo termine rendono il cervello del bimbo ancor più sensibile alle critiche esterne. Biologicamente si potrebbe pensare che diminuisca ulteriormente la quantità di neurotrasmettitore trasportata dalle molecole o captata dalle cellule per danneggiamento delle strutture proteiche responsabili. Ancora una volta non parliamo di ipotesi ma di evidenze: lo stress si ripercuote al livello molecolare e rende alcune zone del cervello più o meno attive di altre (Schloesser, Manji & Martinowich, 2009). «Transazione» non coincide con un semplice modello relazionale, bensì con un modello che fa si che le caratteristiche dell’uno, modifichino quelle dell’altro e la relazione stessa (A1 si modifica in An, B1 si modifica in Bn; si passa da un’interazione diplomatica ad una rissa). Il bambino si troverà a disagio alla festa, ma farà anche a disagio nel parlare con la mamma dei suoi problemi perché sa che da lei otterrà solo critiche. Chi dovrebbe insegnargli a gestire l’ansia delle relazioni diventerà essa stessa una fonte di ansia relazionale. La capacità di regolazione delle emozioni sarà sempre più compromessa. Gli atteggiamenti molto normativi («io so cosa è giusto e cosa è sbagliato e deve essere così anche per te»), come quelli dell’esempio, non sono altro che eventi traumatici «sottili» rispetto a quelli palesi come violenze o lutti, ma altrettanto dannosi se reiterati nel tempo.
Brutte abitudini per soffrire meno
Sappiamo che le mozioni sono transitorie è possono essere esogene (causate da eventi esterni) o endogene (causate dai propri pensieri). Sono caratterizzate da reattività biologica, comprensione cognitiva e sensazione soggettiva. Di fronte ad un evento, se la reazione è intensa, il rischio è che il paziente agisca sulla sola base dell’emozione, senza analisi critica della situazione. L’azione ed il conseguente comportamento generano un secondo evento scatenante, come nel climax della transazione tra madre e bambino del paragrafo precedente, a cui ne seguono molti altri che cercano di trovare soluzione nei comportamenti disfunzionali (quali gridare, accusare, minacciare, nel migliore dei casi, o farsi del male nel peggiore). Teniamo presente infatti che i comportamenti disfunzionali non sono altro che tentativi di abbassare il livello di sofferenza emozionale. Tagliarsi, bere, drogarsi, assumere benzodiazepine (tutti comportamenti tipici nel BPD), hanno un effetto calmante, ed è ben visibile in risonanza magnetica, dove una qualsiasi lesione tissutale diminuisce l’attività dell’amigdala, ciò significa che i pazienti finiscono per apprendere che farsi del male fa stare meglio. Finiscono per associare l’autolesionismo ad una sensazione di benessere che li allontana dalla situazione sociale conflittuale che sta creando loro molti problemi. Dopotutto il dolore distrae dal momento attuale e comanda al corpo di rilasciare oppioidi endogeni che servano da modulatori della sofferenza. La «disregolazione» emotiva tipica del borderline quindi non è da vedere solo nel senso di «discontrollo», ma anche di «ipercontrollo», nel tentativo di gestire la propria sofferenza. Agli occhi degli altri i loro comportamenti sembrano semplicemente fuori controllo, ma nella loro testa sono gli unici mezzi che hanno per avere potere su una situazione che li sta soffocando. Sorge spontanea una domanda, perché certe persone arrivano a tagliarsi, bruciarsi, pizzicarsi per stare meglio? Non ci sono altri modi per distrarsi dal fallimento delle relazioni sociali?
Il problema di una società giudicante come la nostra
Secondo la teoria biosociale, nella mente dei pazienti con disturbo borderline vi è un meccanismo anti-dialettico, il che significa che si vanno a creare degli stabili ed irrisolvibili dilemmi interni tra due elementi di una diade. Un esempio è quello tra vulnerabilità emozionale e autoinvalidazione, ovvero il tentativo per una persona sensibile di sopravvivere ad un ambiente minaccioso ed invalidante attraverso l’autoinvalidazione. Ipotizziamo di avere un bambino che vive in una ambiente in cui i genitori litigano furiosamente. Mentre dorme si sveglia spaventato perché sente urla e piatti rotti; vorrebbe chiedere protezione al papà e alla mamma, ma in questo caso sono proprio loro la causa del problema. Ammettiamo comunque che provi ad andare da loro: «ho sentito un rumore…». La risposta dei coniugi nel mezzo della discussione probabilmente sarebbe «cosa fai sveglio? Torna a dormire!». Lo strattonerebbero e lo rimetterebbero a letto.

Il bambino a questo punto sarà invalidato sia dalle grida dei genitori, sia dalla mancanza di protezione, cercherà quindi di calmarsi da solo visto che chi dovrebbe calmarlo non sta svolgendo il proprio compito. Se non gli verrà insegnato dalle figure di riferimento a gestire gli stati di attivazione interna, a riconoscerli e ad etichettarli, il bambino tenderà a trovare delle soluzioni alternative da solo. Per giunta tenderà a non riflettere più sulle proprie emozioni ma tenderà ad agire di conseguenza senza pensare anche in età adulta. Non imparerà a riflettere sulla paura domandandosi «perché la provo? Come la risolvo?», non avrà la sicurezza di un genitore protettivo, sarà da solo in preda ad una tempesta. Gli unici mezzi che avrà a disposizione per non soffrire più saranno quelli di cui potrà fare uso in autonomia: grida, urla, pianti, rabbia da piccolo, droghe, alcol, sesso, lesioni da grande. Per queste cose non è richiesta l’attenzione di una persona terza, né un’analisi personale. Non è necessario domandarsi perché ci si sta attivando dal punto di vista emozionale, per risolvere il problema si mette in atto il comportamento senza pensare. Il piccolo abbandonato a sé stesso finisce per chiudersi a riccio. Anche a quel punto continua a non ottenere la comprensione dell’ambiente, che invece intensifica il giudizio: «ultimamente sei sempre in silenzio. Non parli. Che cos’hai di sbagliato?». Non è infrequente che il bimbo (o l’adolescente) finisca per suicidarsi quando si trova al limite della sopportazione.

Abbiamo un bambino che ha paura dei genitori perché sa che andando da loro non otterrebbe consolazione, ma dispregio. Si arrabbia, ma la rabbia altro non è che una reazione secondaria ad un’altra emozione, la paura in questo caso. Tuttavia non si arrabbia con i genitori perché non è in grado di argomentare i propri motivi, o non gli viene data la possibilità di farlo, si arrabbia con sé stesso perché lui stesso è l’unica persona che in quel momento lo ascolta. Visto come è stato trattato comincia a credere che i genitori si arrabbino per colpa sua (autoinvalidazione), alleandosi con l’ambiente invalidante. Si arrabbia con sé stesso perché pensa di essere la causa del problema. I bambini non pensano in maniera critica come gli adulti. Queste cognizioni si inseriscono stabilmente nella mente dei pazienti che da grandi spesso si presentano in ambulatorio con frasi del tipo «più volte ho pensato che se non fossi mai nato i miei genitori sarebbero stati più tranquilli» oppure riportano le parole dei genitori: «non mi sono separato da tuo padre solo per te» (un atteggiamento altamente invalidante per il piccolo, da queste parole sembra sia solo colpa sua se il genitore è rimasto accanto ad una persona che lo fa stare male). Come risultato otteniamo dei pazienti che finiscono per odiare loro stessi, perciò poco importa se per gestire delle emozioni che non sanno controllare finiscono per danneggiare il loro corpo, dopotutto questo è l’unico modo che conoscono per affrontare la problematica, e magari ritengono anche di meritarsi un po’ di sofferenza fisica.
LA PERSONALITÀ NELL’OTTICA DELLA TERAPIA DIALETTICO COMPORTAMENTALE
Dalla teoria bisociale deriva la cosiddetta terapia dialettico comportamentale (DBT), ovvero un innovativo trattamento psicoterapeutico e psicoeducazionale che mira a risolvere l’insieme dei problemi che insorgono durante lo sviluppo identificati da Marsha Linehan. La proposta di Marsha andò ad identificare i meccanismi che sorreggono i criteri diagnostici del disturbo borderline di personalità. I criteri senza spiegazione sono solo criteri, senza una causa conosciuta, una spiegazione e quindi un trattamento. La terapia infatti non si basa sui criteri, ma su ciò che li genera. Il farmaco non cura i sintomi, ma quello che li genera. Il trattamento per il diabete non cura «il diabete», ma cura la sovrapproduzione di insulina da parte del pancreas, ovvero il meccanismo da cui dipende la patologia. La DBT fa esattamente la stessa cosa per il disturbo borderline, dopotutto la teoria biosociale desidera proprio identificare i fattori sociali e biologici alla base della traiettoria evolutiva disfunzionale, la DBT è il farmaco. Difatti, secondo la teoria biosociale, nel caso del BPD la patologia è spiegata dall’interazione tra fattori biologici (vulnerabilità) e fattori ambientali (invalidazione). Tuttavia, tale interazione non è episodica, ma trasversale, deve essere vista all’interno di una logica evolutiva. L’ottica quindi è quella della psicopatologia dello sviluppo, non della semplice psicopatologia «statica». Come nel corso del tempo l’interazione tra fattori genera la psicopatologia?

Per spiegare come interagiscono tra loro i fattori è sempre necessaria una teoria, nel caso della Linehan, quella dialettica. Vulnerabilità e invalidazione vengono inserite all’interno di un modello dialettico disfunzionale dello sviluppo, o meglio dentro un modello dialettico dello sviluppo che nella sua fattispecie è disfunzionale. Il disturbo borderline di personalità viene visto come un fallimento dialettico evolutivo. I soggetti non vanno impacchettati nella diagnosi, ma bisogna comprenderne la storia evolutiva! Non sono borderline, ma persone con una particolare storia di vita ed un particolare assetto biologico. La terapia cura le persone, non il disturbo. Il soggetto è la sua storia, la sua biologia e il suo ambiente, va ben oltre la sola etichetta diagnostica. Possiamo comprendere le persone individualmente solo se le osserviamo in termini evolutivi. Probabilmente tutti i pazienti BPD hanno aspetti in comune nelle loro storie, ma ogni storia è comunque diversa dalle altre. Conoscere quella di ciascuno è il primo passo per identificare i nodi nel flusso evolutivo che bisogna andare a districare.
Le spinte evolutive: come evolve la personalità
In questo caso, il meccanismo che spiega la patogenesi ed il mantenimento della patologia è la disregolazione persistente ed invasiva del sistema delle emozioni. La DBT vede il disturbo borderline (e quindi la disregolazione emotiva) come il risultato di un fallimento dialettico dello sviluppo. Immaginiamo di avere un sistema semplice formato da individuo e ambiente, due componenti distinte, ma in continua interazione. Non è possibile considerare un individuo senza ambiente o un ambiente senza individuo. Dal punto di vista del funzionamento, le due componenti, per quanto autonome, sono interdipendenti e la loro interazione produce costanti cambiamenti, l’individuo cambia l’ambiente e l’ambiente cambia l’individuo. Non si crea l’individuo senza ambiente e non c’è ambiente senza individui. Lo sviluppo è la risultante di due particolari modalità di interazione: coordinamento e sincronizzazione.
- Coordinamento: la «connessione» tra diversi componenti dell’individuo o dell’ambiente produce effetti evolutivi nel tempo, senza alcun obiettivo teleologico. Individuo ed ambiente possono agire in maniera coordinata oppure no. Due componenti sono coordinate se vanno nella stessa direzione: i genitori dicono ad un bambino di fare i compiti ed il bambino dice che li farà. Al contrario, il coordinamento manca quando le due componenti entrano in conflitto: i genitori dicono ad un adolescente di tornare presto la sera, l’adolescente risponde che tornerà quando lo decide lui perché non è più un bambino;
- Sincronizzazione: «azione congiunta» («connessione») e sinergica delle componenti in un preciso momento temporale. Ad esempio, sono tutti contenti in una determinata situazione. Il bambino ha fatto i compiti, i genitori lo lodano e lui è molto felice. Ancora una volta la mancanza di sincronizzazione coincide con una situazione conflittuale: l’adolescente torna molto tardi la notte e i genitori lo aspettano alzati per poi rimproverarlo, lui li attacca.
Quando sincronizzazione e coordinamento sono in armonia, il sistema è in equilibrio. Secondo la prospettiva dialettica, le spinte evolutive si verificano quando il sistema è in una condizione di crisi, quindi quando sincronizzazione o coordinamento vengono a mancare, ma non tutte le situazioni di crisi vanno intese in termini negativi, alcune sono potenzialmente costruttive. Quando non succede nulla di problematico, non c’è nessun cambiamento. La spinta evolutiva si verifica quando si perde l’equilibrio tra le componenti del sistema.
Perché l’adolescenza è (e deve essere) un casino
Ci si aspetta che dopo ogni crisi il sistema si riassesti su un livello più alto di funzionamento (da bambino ad adolescente, da adolescente ad adulto). Ogni spinta, ogni conflitto, è un gradino vero la cima della scala. Il processo evolutivo nel suo insieme è caratterizzato da un’alternanza tra momenti di equilibrio (quindi presenza di coordinamento e sincronizzazione) e momenti di crisi. Stabilità, staticità ed equilibrio NON rappresentano la forma migliore di adattamento, la persona sana ed adattata NON è quella stabile, coerente e statica. L’ambiente è in continuo cambiamento, una persona che non risente tale cambiamento è isolata da esso, e quindi tutt’altro che stabile mentalmente. È normale che si perda l’equilibrio nel corso della vita, negare questa cosa è il vero problema. La persona che «sta bene» si lascia squilibrare. La persona sana non è quella equilibrata, né quella statica, né quella stabile. Non è realistico. La realtà è che a fronte dei cambiamenti, in certi momenti siamo in disequilibrio. Da questo punto di vista l’adolescenza è un periodo di enorme squilibrio, uno squilibrio necessario per passare dall’infanzia all’età adulta. Perché sia efficace, l’adolescenza DEVE essere un casino. Lo scopo del genitore è quello di trovare accordi diplomatici per accordare le parti, non quello di punire l’adolescente perché delude le sue aspettative. Senza squilibrio non c’è riassetto ad un livello più alto di funzionamento, si resta fermi al primo gradino, isolati dalla realtà che per definizione è in continuo cambiamento.
- Ritorno al coordinamento: dopo il litigio ed alcuni giorni di tensione i genitori e l’adolescente riescono faticosamente a mettersi d’accordo su un orario di ritorno alla sera che vada bene per tutti
- Ritorno alla sincronizzazione: l’adolescente torna all’orario stabilito la prima sera che esce e tutti sono contenti
Lodare le situazioni tranquille equivale a lodare anche il fatto che nulla cambi: lodare un bambino che fa i compiti, equivale a motivarlo a continuare ad essere ubbidiente. Quando fa i compiti sono tutti contenti (sincronizzazione), ma la stessa aspettativa è normale che venga delusa nel momento in cui il bambino ubbidiente cresce per diventare un adolescente litigioso. Dopo una discussione intelligente si potrebbe tornare in una situazione di transitorio equilibrio, ma è normale che questa duri poco… le cose che fa fuori interessano all’adolescente molto più di quelle che fa a casa, quindi è logico che dopo qualche giorno rincominci a non tornare a casa in orario. Vi è e DEVE esserci una dialettica tra squilibrio ed equilibrio affinché una personalità si sviluppi nel miglior modo possibile. Questo modello dello sviluppo prevede un’alternanza tra momenti di equilibrio e di squilibrio. Questi ultimi sono quelli che mettono in moto l’evoluzione dei rapporti e la maturazione delle persone, senza di essi il sistema non evolve, resta in un irreale situazione di stallo. Presto o tardi ai genitori non importerà più nulla dell’ora a cui torna il figlio la notte, lui non si sentirà più oppresso e probabilmente sarà loro grato (e tenderà anche a rispettare di più le regole spontaneamente, senza imposizioni).
Personalità borderline come «cortocircuito»
L’aspetto problematico che genera la personalità borderline sta proprio nelle transazioni disfunzionali tra vulnerabilità biologica (es. elevata sensibilità) e invalidazione ambientale. Ricordiamo che invalidante è qualsiasi ambiente che consideri l’attivazione emozionale generata dalla situazione come ingiustificata e non comprensibile alla luce della situazione, con conseguente tendenza alla semplificazione, alla banalizzazione e alla critica. La mamma del bambino con ansia sociale si aspetta che ci sia un coordinamento («evviva!») quando lei gli propone di andare alla festa. Per lui invece la festa di compleanno potrebbe essere problematica, una mamma invalidante insisterebbe comunque sulla base della sua aspettativa anziché dare attenzione alla prospettiva del bambino. Spesso ci si sente dire dai genitori frasi del tipo: «non capiamo cos’ha nella testa». Piuttosto non capiscono che il loro figlio è fatto in un certo quale modo, un modo che probabilmente delude le loro aspettative. «Non ti riconosciamo più» perché forse qualcosa nel bambino è cambiato, in effetti l’adolescente è diverso dalla sua versione più giovane, qualcosa è mutato in lui com’è giusto che sia. È normale che non rispetti più le regole dell’adulto, ma questo non fa di lui una brutta persona come spesso e volentieri alcuni genitori vogliono far credere. Non è l’adolescente che è problematico, è il genitore che ha è un problema con sé stesso nell’accettare il cambiamento del figlio, che evidentemente si discosta dalle sue aspettative.

Quando si è abituati ad un gattino mansueto che segue alla lettera ogni regola, è normale che poi ci si trovi in difficoltà confrontandosi con una tigre ribelle. Forse è più saggio scendere a patti con la tigre e comprenderne il punto di vista, piuttosto che iniziare una sfida per vedere chi è ad avere il coltello dalla parte del manico. L’educazione non dovrebbe essere un gioco di forza, ma un dialogo. L’ambiente invalidante non è coordinato, non è sincronizzato, è costantemente in tensione. Non è in evoluzione, è statico, ma oltre ad essere statico è anche stabile sul lato negativo della discussione più che sul positivo. Se dialettica = alternanza tra stabilità e crisi, nel BPD vi è una continua e crescente tensione anti-dialettica con stabilizzazione sulla crisi. Il BPD non è un disturbo dell’individuo, bensì una patologia del sistema, spesso del sistema familiare, ma non per forza. L’atmosfera è costantemente cupa, l’aria è sempre tesa, la situazione è statica nel senso che non si modifica, è sempre la stessa, sempre negativa, sempre in loop, come una punizione infernale.
Le cause e la critica sociologica
Abuso emozionale (mancato riconoscimento delle esigenze emozionali) e trascuratezza (neglect) sembrano essere gli eventi traumatici infantili centrali per lo sviluppo del BPD. Gli effetti sono sulla vulnerabilità emozionale e sulla sensibilità al rifiuto, ma attenzione, le famiglie invalidanti non nascono dal niente, sono il prodotto di una cultura che non favorisce la comprensione, ma enfatizza l’individualismo. Se il genitore ha delle aspettative particolarmente elevate nei confronti del figlio, è solo perché è questo ciò che gli è stato tramandato. Il genitore cresciuto con la paura, cercherà di ottenere il rispetto provocando altrettanta paura; il genitore cresciuto per primeggiare, si aspetterà dal figlio solo risultati eccelsi; il genitore è cresciuto nel timore di essere sopraffatto dagli altri, insegnerà al proprio figlio a sopraffare per non farsi sopraffare. Questo non giustifica tutti gli stili genitoriali, l’insegnamento è anche un lavoro di auto-educazione: se ci si rende conto che un proprio atteggiamento non è funzionale, se ne prende atto con umiltà e si cerca di cambiarlo. Se nulla cambia, la dialettica fallisce; è bene che di generazione in generazione gli stili educativi mutino a seconda delle necessità specifiche di ciascun figlio. Il genitore che non vuole cambiare «perché a lui è stato insegnato così» ha un problema da risolvere con sé stesso. Non tutti i figli nascono per sopraffare, per primeggiare, per seguire le regole… Ognuno è diverso dagli altri e per realizzarsi non dovrebbe sentire il peso di un genitore che lo desidera per come non è.

Parliamo di una «tradizione» fallimentare perché se ci ritroviamo in una società perennemente in crisi è proprio per questo motivo: tutti tendono all’eccellenza, ma questa cosa non fa che creare problemi. Funzionava forse negli anni Settanta, quando l’individualismo era l’eccezione, ora che è la regola, la competizione è molto più alta e con essa i fallimenti e le delusioni delle aspettative di figli e genitori. Ne conseguono rabbia, litigi ed incomprensione, nella speranza di trasformare forzatamente la propria progenie in qualcosa che non le calza. Apriamo lo sguardo dalla biologia in senso stretto alla società, e alla relazione tra le due componenti. Spiegare la reattività emozionale del BPD sulla base della sola amigdala sarebbe come guardare il mondo attraverso un cannocchiale: se ne vedrebbe una sola parte, ma la realtà è ben più vasta e complessa. Ovviamente questo non autorizza gli educatori a non vegliare più sui figli, a non direzionarli, a non dare loro delle regole; la teoria biosociale non ci dice di lasciare loro libertà completa, sarebbe altrettanto improduttivo e il sistema si squilibrerebbe nuovamente su un solo versante. La regola è necessaria, ma quando la controparte non la accetta, è bene metterla in discussione e mettere in discussione sé stessi (il discorso vale per entrambe le parti), perché nessuno ha la verità assoluta in tasca, ognuno ha la propria. Quello che è stato insegnato, non è detto sia quello da insegnare, forse è il caso di ritrattarlo per adattarlo alla situazione.
Teoria biosociale: non si parla solo di personalità borderline
Fino ad ora abbiamo parlato esclusivamente di BPD perché è con questo specifico disturbo di personalità che nasce la teoria biosociale. Tuttavia il discorso dei paragrafi precedenti sembra estendibile ad ogni tipo di traiettoria evolutiva. In generale, se ci fossero comprensione ed accettazione anziché invalidazione ambientale, pur essendoci alta vulnerabilità, probabilmente non ci sarebbero disturbi di personalità (o comunque sarebbero attenuati). Questi nascono nel momento in cui un individuo per come è fatto si scontra con una realtà dalle aspettative «preconfezionate». Un esempio estremo in questo caso rende l’idea: nessuno deve farsi sopraffare, ma alla fine tutti si ritrovano a soffrire di narcisimo patologico; tutti devono assolvere i propri compiti alla perfezione, ma alla fine tutti si ritrovano con un disturbo ossessivo-compulsivo di personalità (diverso dal DOC psichiatrico); tutti devono essere ciò che non sono, ma alla fine tutti si ritrovano con un disturbo borderline… Abbiamo detto che il BPD non è un disturbo dell’individuo, bensì una patologia del sistema, ed effettivamente così è. È il sistema che ci desidera in un certo modo, anche quando quel particolare modo non ci è consono. Sia ben chiaro che il liberalismo estremo non sarebbe altrettanto funzionale. Non è la libertà assoluta che deve essere data, ma la possibilità di dialogare e di mettere in discussione gli obblighi. «Si fa così.», e chi l’ha detto?
Fonte
- Oltre la personalità. Dialettica sistemica e sviluppo borderline. Raffaello Cortina Editore.
Maffei, C. (2021). - Ruocco, A. C., Lam, J., & McMain, S. F. (2014). Subjective cognitive complaints and functional disability in patients with borderline personality disorder and their nonaffected first-degree relatives.
The Canadian Journal of Psychiatry - Caspi, A., Sugden, K., Moffitt, T. E., Taylor, A., Craig, I. W., Harrington, H., … & Poulton, R. (2003). Influence of life stress on depression: moderation by a polymorphism in the 5-HTT gene.
Science - Schloesser, R. J., Manji, H. K., & Martinowich, K. (2009). Suppression of adult neurogenesis leads to an increased HPA axis response.
NCBI